Luca Tironi

15 lug 20215 min

FEDERICO CINA: Un passe-partout per la Romagna

Il profumo della piadina che cucinava mia nonna è il ricordo più bello impresso nella mia mente. Quando era più giovane, me la figuro affaccendarsi di fronte al camino senza vetro mentre posiziona l’impasto direttamente sulla pietra. La casa di mia nonna rappresentava il punto di incontro di tutta la famiglia, il luogo in cui trova ancora oggi nutrimento la mia ispirazione.

Tutto inizia ad AltaRoma nel gennaio 2019: con una collezione intitolata Romagna mia, già di per sé un manifesto, Federico rivela quella verità che “si dischiude nella Romagna che decora i suoi abiti” e che è quasi più bella della Romagna stessa, perché non mente o mente sapendo di mentire. Nel luglio dello stesso anno la collezione Mi sono innamorato di te vince Who’s on next di Vogue Italia. Seguono la riconferma nel calendario di AltaRoma per il 2020 e la sfilata digitale Corpi e luoghi durante la Milano Digital Fashion Week.

Federico è uno stilista di sintesi, un uomo che vive nei ricordi con i piedi ben piantati nell’attualità. Il processo di avvicinamento alle origini del brand “Federico Cina”, proietta nella direzione di un realismo poetico in cui la terra natia è filtrata attraverso la dimensione di un ricordo conciliatore con un passato escapista. Quest’atto di fede fa sì che il portato folclorico e tradizionale della terra contadina venga bagnato da un’arte affinata in anni di studi e lavoro all’estero. Ciò che c’è di curioso nella storia del brand è proprio il processo di avvicinamento a questo ricordo, e a Sarsina come luogo che idealmente fonde echi esterofili con una cultura figlia della commedia plautina che proprio qui trae le sue origini.

Alla luce di tutto questo, come avviene la fusione tra il tuo animo cosmopolita e le collaborazioni che metti in atto con gli artigiani romagnoli?

F: L’incontro tra queste mie due metà è avvenuto in modo spontaneo perché frutto di un processo di riconciliazione con le mie origini. Il percorso di decantazione dei caratteri che oggi definirei come contraddistintivi dell’identità del brand, nasce paradossalmente da un progressivo allontanamento da un paese rispetto al quale non mi ero mai sentito “figlio”. Mi sentivo sempre un po’ fuori posto a Sarsina, e per questo, raggiunta la maggior età, ho deciso di portare avanti il mio percorso accademico prima in una grande città come Firenze, e poi quasi esclusivamente all’estero in paesi come il Giappone, presso l’Osaka Bunka Fashion College, e negli USA a New York.

Tuttavia, nel momento in cui hai finalmente raggiunto la grande città e inizi le tue prime esperienze professionali in case di moda di primissimo piano come Brooks Brothers e Emilio Pucci, qualcosa cambia. Come mai?

F: Avevo coronato due sogni, eppure non mi sentivo appagato. Quando mi trovavo in quelle megalopoli, i rapporti umani mi sembravano falsi, distaccati, non facevano per me. E quindi torno alla mia terra. Ho pensato fosse giunto il momento di onorare quella Romagna dalla quale ero “fuggito”, giocando con quanto avevo imparato all’estero, ma anche consultando le maestrie locali: le stamperie, il mio sarto, quelle persone che mi potevano trasmettere la passione che andavo cercando.

Nel tuo processo creativo, la spinta artistica che equilibrio stabilisce con la vestibilità del capo?

F: Per creare qualcosa di contemporaneo è necessario partire da basi tradizionali facendo “parlare” il tessuto. Questo soprattutto alla luce del fatto che alcuni aspetti del mio universo di riferimento nascono dallo studio del guardaroba di mio nonno, un guardaroba di un tempo pensato con certi criteri di vestibilità a tratti diversi da oggi. Tuttavia, un capo non è solo fatto su misura perché è fatto apposta per te, ma perché dietro c’è una scelta compositiva precisa. Quest’attenzione non ha tempo, si è solo dispersa all’interno del sistema del fast fashion e di un mass market che negli ultimi anni ha portato verso tempi di produzione tali da perdere totalmente il contatto con quanto si stava facendo. Noto però con piacere che stiamo un po’ tutti ritornando a tempistiche più sane.

Ai tempi di una nuova rivoluzione sessuale, la moda prende a picconate le convenzioni di genere. Ha senso parlare di gender blending quando la sartoria agisce su corpi anatomicamente diversi?

F: Un essere umano, se si innamora di un capo, deve essere libero di acquistarlo. Questo aspetto è sempre stato per me importante. Dopodiché è innegabile la difficoltà, a livello modellistico, di riuscire a trovare un unico capo che riesca a vestire entrambe le persone. Nel mio caso, gioca a favore un’idea di donna che ritagli la sua femminilità in forme maschili sentendosi a proprio agio. Anche nel nostro e-commerce i capi sono indossati sia da uomini che da donne e le taglie vanno dalla 38 alla 54. In definitiva, e solo questione di comprendere che non si tratta di vestire un uomo come una donna, o viceversa, ma di poter sviluppare sul singolo corpo ciò che lo rappresenta meglio.

Da Occidente a Oriente, sfumano le dinamiche di genere nella definizione dell’abbigliamento strettamente maschile e femminile. Che ruolo ha avuto un paese come il Giappone, caratterizzato da un approccio alla struttura dell’abito completamente diverso dal nostro, nella definizione del tuo stile sartoriale?

F: In Giappone ho scoperto una manifattura molto simile a quella italiana. I giapponesi sono maniacali nella cura che attribuiscono alla composizione di un capo su misura, noi sotto questo punto di vista siamo più smart, riusciamo a fare qualcosa di complesso facendolo sembrare estremamente semplice e parte del nostro DNA. La pazienza che trasmettono i giapponesi è però unica.

Prendendo la camicia come capo che meglio sintetizza sartorialità e tradizione, dietro quei motivi si nascondono i tuoi personali ricordi delle tavolate con tutta la famiglia. Cosa caratterizza il concetto di tavola, in Italia, rispetto a ciò di cui hai potuto fare esperienza nel resto del mondo?

F: La mancanza della tavola all’italiana ha sicuramente giocato un ruolo nel mio ritorno. È anche grazie al fatto che sia tornato a vivere qui che molte cose sono riuscito a realizzarle. Anche l’andare a fare la spesa e incontrare la nonnina che attacca bottone è per me fonte di grande ispirazione. Sotto questo punto di vista, l’esperienza in Giappone mi ha messo veramente a dura prova: loro l’inglese non lo parlano molto e quindi bisognava spesso gesticolare per farsi capire. A livello personale c’è stata molta solitudine, poi in generale il Giappone è un paese con dinamiche diverse dal punto di vista delle relazioni.

Dal reimpiego dell’archivio di Vittorio Tonelli, alla creazione di “Federico Cina Archivio Digitale”, tutto ruota intorno alla cultura. Pensi che oggi i giovani possano cogliere un richiamo al fascino del carisma piuttosto che alla bellezza da social?

F: La nostra generazione si divide in due settori: quelli che sono affascinati dai social e un altro settore curioso e che si vuole arricchire di sapere, non fermandosi solo all’immagine estetica ma indagando cosa ci stia dietro. Il mio cliente fa parte di questo secondo gruppo.

Concludendo, nella ricerca di parole chiave, il brand è costantemente animato da un senso di ironica disillusione nei confronti della propria terra: l’Amarcord. Amarcord è il ricordo che ha il sapore della piadina della nonna, quella consumata voracemente e di cui rimangono una manciata di briciole con cui giocare sullo sfondo a spighe e grappoli di una tovaglia. Amarcord è uno stile di vita, un passe-partout per la Romagna, l’equivalente della Dolce vita romana che sostituisce il pattìno al Colosseo.