Luca Tironi

15 lug 20215 min

Il diavolo veste… dalmata!

Tutte le volte che Glenn Close ha dettato legge indossando i meravigliosi panni di Crudelia de Mon

Una Rolls Royce targata DeVil sfreccia nel centro di una Londra plumbea che sembra una riproduzione quasi perfetta della Metropolis di Fritz Lang. Al suo interno, accomodato sul sedile posteriore, il demonio attende la sua entrata in scena avvolto in una pelliccia di astrakan con lunghe code. Un bocchino, rosso cremisi come il suo rossetto, viene inquadrato con un rapido movimento di macchina mentre lascia cadere un rivolo di cenere dalla sommità della sigaretta in combustione direttamente sulle Oxford ben lucidate dell’autista che le apre la portiera. È lei, Crudelia De Mon. Lo stiletto tacco dodici è tagliente come la sua lingua, la falcata avvolta in collant neri è studiata come i suoi diabolici piani, e poi c’è sempre quel tanto di volgare cattiveria che perfeziona la formula di uno dei più temibili villains della storia della cinematografia Disney. Bipolare come il colore dei suoi capelli, la si potrebbe sintetizzare per eccesso in una perfetta rappresentazione del Camp grazie a un’estetica che strizza l’occhio a un kitsch ricercato, quasi da Drag Queen; per difetto, in termini paradossali, è di un minimalismo cromatico assoluto, imbrigliata in un monachesimo che lascia spazio solo al bianco e al nero.

Pochi antagonisti nella storia dei film d’animazione hanno giocato un ruolo tanto importante nel settore moda quanto quello di Cruella, forse per quel suo manifesto interesse nei confronti di questo mondo; e visto che di qui a un paio di settimane la ritroveremo nelle sale cinematografiche con una rinnovata immagine, colgo l’occasione per parlare di colei che per prima ha dato un volto, una risata e un guardaroba pazzesco alla temibile Crudelia De Vil: sto parlando di Glenn Close.

Era il lontano 1996 quando venne girato La carica dei 101 – Questa volta la magia è vera, trasposizione del noto cartone animato del 1956, basato sul romanzo di Dodie Smith. Per il ruolo della De Mon venne scelta la già cinque volte candidata all’Oscar come migliore attrice protagonista Glenn Close. Piccolo spoiler, la Close figura come produttore esecutivo della pellicola in uscita a maggio. Il contributo dato dall’attrice alla costruzione del personaggio è stato a suo tempo così importante da portare la persona a scomparire dietro al ruolo, operazione coronata dalla premier del film a New York il 18 novembre 1996 dove Glenn Close ha pensato di rivestire i panni della diabolica star ancora una volta. Ma cosa sarebbe Crudelia senza i suoi costumi e, soprattutto, perché il suo ruolo rappresenta una sintesi tra le principali istanze stilistiche di quel periodo?

Per i costumi di Cruella, che valsero una nomination agli Oscar al costumista Anthony Powell, tutto ruotava intorno al folle amore della donna per la pelliccia e al suo disperato tentativo, che è poi al centro della storia, di rapire una cucciolata di dalmata per ricavarne un morbido soprabito. Provenendo da un passato burrascoso da emarginata e disperata arrampicatrice nel mondo della moda, il trucco è stato quello di tradurre la cattiveria in tagli netti, spalle imbottite, piume, copricapi scultura, guanti con unghie alla cat woman e calzature dal sapore vittoriano. Una sorta di power suite, un’armatura che rendeva Crudelia temibile senza che dovesse nemmeno aprire bocca. La sua tossica presenza era accentuata dalla drammaticità con cui si aggiustava una stola di visone, il suo essere imperscrutabile e folle era determinato da un fascinator che le copriva il volto ma ne disvelava il ghigno malefico. Non è un caso che Glenn Close abbia modellato il personaggio attorno al suo guardaroba.

Nella storia originale, tuttavia, l’antagonista manca di un passato che indaghi le origini del suo mito. Per questo l’infanzia mai scritta di Crudelia è diventata una via infinita di sperimentazioni per l’ultimo remake cinematografico con interprete Emma Stone: ci si concentrerà proprio sull’adolescenza di Cru(Ella) nella cornice di una Londra anni ’70 animata dall’ultima delle subculture, ovvero il Punk. La parola stessa, in uso in Inghilterra fin dal 1590, indicherebbe il mondo della delinquenza. Ma la storia del punk per come la conosciamo noi comincia a Londra nel 1971, quando Malcom McLaren, manager dei Sex Pistols e fidanzato della designer Vivienne Westwood, apre il negozio Let It Rock in King’s Road, dove vende quasi esclusivamente abiti maschili per la generazione dei mods. Non è un caso che il capello scompigliato alla Vivienne Westwood, l’emarginazione e la violenza con cui ci si fa portatori delle proprie idee, confluiscano nella pazzia della De Mon.

Per non parlare poi dei corsetti, sempre mutuati dal guardaroba della Westwood. Per definire la silhouette futurista, Glenn Close dovette indossare costantemente un corsetto che le riduceva il girovita ad appena una cinquantina di centimetri. Se solo lo si fosse stretto di un paio di millimetri in più, l’attrice si sarebbe sentita svenire e per questo motivo venne creato un camerino su ruote che dopo il ciak permetteva immediatamente all’attrice di essere sciolta dall’armatura. Un altro limite dell’essere Cruella è che apparentemente non ci si può sedere: gli abiti sono talmente stretti che, tra una scena e l’altra, la Close doveva riposare su una tavola semi-mobile, simile a quella utilizzata nella Hollywood dello Studio System.

Crudelia non è solo un personaggio che ha una sua storia, ma che fa parte di un periodo storico caratterizzato da uno stile preciso. Appena un anno prima, il 26 marzo 1995 era andata in scena al Cirque d’Hiver a Parigi la sfilata di Thierry Mugler per l’autunno inverno 1995. Non dimentichiamoci che nella carriera dell’avanguardista e istrionico designer strasburghese non sono mai mancate collaborazioni con il mondo del circo e del cinema, due realtà in cui l’estetica si sostituisce necessariamente alla componente pratica della moda: nel primo caso perché l’acrobata deve essere visto a distanza nelle sue evoluzioni, e nel secondo caso perché la grandezza dello schermo cinematografico permette allo spettatore di percepire meglio il dettaglio. I tagli chirurgici, i dettagli aerodinamici, i bustini scultura, il latex, era tutto così “cruellesco” che Vogue la definì una spaventosa e allo stesso tempo allettante immagine per l’alba di una nuova era digitale.

Ma in Crudelia non c’è soltanto la magia di Mugler, c’è anche il rigore di Helmut Lang che stava prendendo a picconate, proprio in quegli anni, quella bulimia di colori e forme che avevano contraddistinto gli anni Ottanta. Con il suo stile, che si fa portatore di quel ritorno al bianco e al nero, è stato in grado di anticipare alcuni trends come l’androginia, l’athleisure e l’attenzione all’uniforme come elemento che mette in primo piano l’individualità rispetto alla sessualità. Quando il remake cinematografico è arrivato in Italia eravamo ormai nel 1997 e il mondo della moda era fisso sulle immagini di Guy Marineau che immortalavano la collezione primavera/estate di quell’anno. Un tripudio del nero su una passerella bianca e grigia, quintessenza dello studio di Cruella.

Una clausola contrattuale permette a Glenn Close di tenere i costumi dei ruoli che interpreta. Quando, in un’intervista per Vanity Fair, le venne chiesto dove fossero nascosti i meravigliosi abiti di Crudelia de Mon, l’attrice ha candidamente risposto di aver donato parte del suo guardaroba all’Università dell’Indiana dove potrà essere preservato e studiato da generazioni di aspiranti costumisti teatrali e cinematografici. L’aurea di eccentricità che si cela dietro a queste forme visionarie servirà quindi a mettere nero su bianco, ça va sans dire, un’importante pagina nel futuro della moda.