La Redazione

2 gen 20215 min

Il Saporedi un abbraccio

«C’erano grandi campi coltiva- ti con radici, una specie di fava e una specie di grano chiamato mahiz». Era il 5 novembre del 1492 e Cristoforo Colombo descriveva con queste parole, sul suo diario di viaggio, ciò che i suoi occhi vedevano del nuovo mondo, di quelle misteriose terre che sapeva di aver raggiunto ma non sapeva di aver scoperto. A distanza di oltre cinque secoli, quel «mahiz» lo conosciamo bene anche noi. È una delle coltivazio- ni più diffuse, una delle più faci- li da riconoscere, un pezzo della nostra storia. Il grano turco (così chiamato proprio per le sue origini esotiche) non ci ha messo molto a ridisegnare i profili rurali del Nord Italia e a stravolgerne le abitudini
 
alimentari.
 

Giunto in Europa nel Cinque- cento e inizialmente coltivato so- prattutto nei giardini e negli orti botanici, è solo tra il Seicento e il Settecento che il grano turco si prese le campagne. Compre- se quelle bergamasche. Proba- bilmente il primo ad arrivare nei nostri campi fu il Mais Spinato. Filippo Lussana pubblicò uno stu- dio che certificava la coltivazione
 
a Gandino in località Clusven nel 1632, nei terreni della famiglia Giovanelli, ricchi commercianti di panni lana. Nel 1617 il mais era arrivato nei territori legati a Vene- zia, e in particolare nel Bellunese, nelle terre del nobile Benedetto Miari. Coevi di Miari erano l’al- lora Patriarca di Venezia, il barone Federico Maria Giovannelli, e i baroni Benedetto e Andrea Giova- nelli, Procuratori della Repubblica veneta, tutti originari di Gandi-
 
no. In entrambi i casi si tratta di mais con i chicchi dalla forma ap- puntita: nel Bellunese si parla di “Sponcio”, a Gandino di “Spina- to”. Si pensi che Matteo Bonafus, direttore del Giardino Reale d’A- gricoltura di Torino, pubblicò nel 1833 una schedatura delle varietà di mais che ha fatto da riferimen- to per tutti gli studiosi. Nel 1842, in una specifica integrazione, ag- giunse proprio il mais “rostrato” o “Spinato”, utilizzando la dicitura francese di “Mais a Bec”, fra cui si annovera anche l’altra eccellenza della ValSeriana: il Rostrato Ros- so di Rovetta.
 
«Rispetto agli altri cereali, il mais ha una resa eccezionale: poco lavoro nei campi e tanto da man- giare. Per questo la sua diffusione, anche in territori come la ValSeria- na, più montani, fu rapidissima», spiega Giampiero Valoti, studioso,
 
VAL 51 SERIANA & SCALVE MAGAZINE
 
esperto di alimentazione berga- masca e autore del libro Polenta e pica sö. Alimentazione contadina nelle valli bergamasche (Edizioni Junior, 1994).
 
La Bergamasca, dunque, fece da culla alla diffusione del mais in Italia e non può quindi stupire che una delle sue più note e amate “figlie”, la polenta, abbia proprio in Bergamasca la sua patria. Una pietanza che abbina alla semplicità della preparazione (farina, acqua, sale e tanto olio di gomito) la ric- chezza del suo trascorso, della sua storia, ben rappresentata da quei granelli color oro che richiamano forzieri ricolmi di pepite. Al con- trario, però, la polenta è stato a lungo il piatto dei poveri, dei la- voratori. Solo nella seconda metà del Novecento è divenuta la pie- tanza emblema della famiglia, del giorno della festa. Una pietanza che proprio in ValSeriana ha con- servato i suoi sapori più antichi e ancestrali.
 
È in queste terre tagliate dal fiume Serio che i mais più anti- chi hanno infatti resistito. Sia per questioni geografiche (un terre- no non propriamente adatto alle coltivazioni massive), sia per questioni sociali (i seriani anche nell’antichità vivevano di com-mercio, artigianato e industria, non di agricoltura). Qui il grano si coltivava principalmente per la famiglia, per riempire la propria pancia senza fini di guadagno. Ed è per questo che in ValSeriana si sono conservate le due particolari varietà. Lo Spinato di Gandino e il Rostrato di Rovetta negli ultimi vent’anni hanno trovato una nuo- va giovinezza, abbinando alla tra- dizione l’innovazione. Sono mais più “ispidi” di quello classico. Lo raccontano già i loro nomi, ispirati dalla forma dei chicchi: non tondi come quelli del mais classico, ben- sì a punta (nello Spinato) e a un- cino (a “rostro”, nel Rostrato). La loro resa, anche per questi motivi, è inferiore, ma organoletticamente pregiata. Seminati solitamente tra la fine di aprile e l’inizio di mag- gio, il raccolto avviene entro la metà di ottobre. Ma cosa cambia tra la polenta più classica e quella prodotta invece con questi mais? La densità, innanzitutto: è meno liquidaepiùasciutta.Maancheil sapore: la polenta di Spinato e di Rostrato è leggermente più ama- ra, più intensa. Una polenta unica, che ha spinto coltivatori e artigia- ni del gusto a trovare anche nuovi utilizzi per questi mais così parti-colari: oggi si producono gallette, frollini, birre, addirittura gelati. Dalla tradizione, all’innovazione. «È affascinante come sia cambia- ta nei decenni l’immagine della polenta - commenta Valoti, che ha appena pubblicato un nuovo libro, Piante e animali del mondo conta- dino bergamasco (Lubrina, 2020) -. Da piatto della quotidianità è di- ventato emblema delle sagre, delle feste. Credo che questa mutazione sia avvenuta negli anni del boom economico: molte persone hanno detto addio alla terra per andarenelle industrie, dove i propri sforzi venivano ripagati sempre e non si era in balìa del clima. Questo ha modificato le abitudini alimenta-
 
ri, così come le cucine: il camino, ovvero l’elemento primo per la preparazione della vera polenta, è quasi sparito. È allora che la polen- ta è diventata l’eccezionalità».
 
Anche perché la polenta ha una qualità rara e decisamente invi- diabileincucina:nonèunaprima donna. Anzi, si esalta con l’abbina- mento giusto. Ed esalta soprattutto qualsiasi compagno di piatto si tro- vi chiamata ad affiancare. «È vero, è un piatto umile nel senso più alto del termine - conferma Valoti -. L’unica cosa fondamentale è che ci sia il pucì, il sugo. Sin dall’Ot- tocento, qualsiasi cosa faccia sugo viene abbinato alla polenta. Dagli osei, gli uccellini, al pesce. Fino ad arrivare, ovviamente, al suo abbi- namento principe: il formaggio».
 
E qui è necessaria un’importante precisazione: non automaticamen- te la polenta mischiata al formag- gio diventa taragna. Quest’ultima, infatti, è una polenta specifica, realizzata attraverso l’unione del- la farina di mais a quella di grano saraceno e successivamente condi- ta con abbondante burro e formag- gio. Una polenta più “grassa”, nata in Valtellina e che in Bergamasca
 
trova la sua “casa” nella confinan- te Val Brembana, più montana del- la Seriana e ricca di formaggi (la maggior parte dei nove formaggi Dop bergamaschi sono proprio brembani, ovvero il Formai de Mut, lo Strachitunt, il Taleggio e il Bitto). Nonostante ciò, vi con- sigliamo di provare la polenta con una delle tante formaggelle di produzione seriana. Formaggi che presto troveranno anche un mar- chio unitario: la Formagela della Val Seriana, ideato dalla locale Comunità Montana e dotato di un apposito disciplinare.
 
Gustarsi un’ottima polenta in ValSeriana, dunque, non è certo impresa ardua. Perché in ogni cu- cina seriana che si rispetti il motto «polenta e chel che ghé» (al Rifu- gio Cimon della Bagozza, in Val di Scalve, è scritto a chiare lettere sul menù all’ingresso) vale sempre, lungo tutto l’arco dell’anno. Ma in inverno un po’ di più. Perché la po- lenta non solo riempie e sfama, ma scalda anche col suo sapore pieno e il suo profumo di legna arsa. E, soprattutto, la polenta fa casa. È un piatto che unisce, che va messo alcentro della tavola e va mangiato in compagnia. La polenta è spirito di condivisione e unione. La po- lenta è un abbraccio. E, di questi tempi, Dio solo sa quanto ne ab- biamo tutti bisogno.