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Energie rinnovabili: tra ambiente, indipendenza e potere


E’ passato ormai più di un anno dalla Conferenza sul Clima che si è tenuta a di Parigi (COP21) nel dicembre 2015, la prima in assoluto, dagli accordi di Kyoto del ‘97, a vedere la partecipazione dei paesi emergenti.

I 195 paesi che vi hanno preso parte hanno siglato accordi al fine di ridurre entro il 2030 le emissioni di CO2 fino a ritenersi disponibili ad investire in tal senso una cifra che, nel caso le promesse vengano mantenute, l’ International Energy Agency ha calcolato essere intorno a complessivi 13500 miliardi di dollari. Promesse, certo, che danno però l’idea di un preciso intento politico e soprattutto di quanto concreta sia oggi la possibilità nonché l’esigenza di derivare dalle rinnovabili una fetta importante del fabbisogno energetico globale. La risposta degli emergenti e dei paesi in via di sviluppo, arrivata per bocca della Cina, è stata però chiara e poco rassicurante: in sostanza Pechino , in assoluto il primo produttore di CO2 a livello mondiale (25%), si è detta sensibile al problema ma non disponibile al negoziato. Pechino, piuttosto, sostiene il diritto degli emergenti ad inquinare per sostenere il proprio sviluppo come è stato a suo tempo per i paesi sviluppati. Tuttavia il modus operandi dei cinesi rivela un atteggiamento favorevole al cambiamento, se non propriamente per questioni inerenti il clima, quantomeno per opportunismo…… Anche per questo il 2016 ha visto, a livello globale, un aumento dell’8.7% del ricorso a energie rinnovabili: la crescita è stata guidata dal solare che per la prima volta dal 2013 ha sorpassato l’eolico per ritmi di crescita ma dati in aumento si sono riscontrati anche per l’idroelettrico e per il bioenergy che addirittura ha incorniciato il 2016 come l’anno migliore in assoluto (con il geotermico fanalino di coda ma leader indiscusso in Italia).

Se guardiamo ai paesi con il maggior incremento di capacità produttiva, proprio l’Asia , a dispetto delle dichiarazioni riportate, domina la scena con il 58% ed è suo anche il 41% della capacità globale erogata da fonti rinnovabili. Cina, USA, Germania e India hanno installato da soli ¾ dei nuovi impianti eolici ma la Cina stravince anche nel fotovoltaico contando da sola per oltre la metà delle nuove installazioni del 2016 (34GW contro gli 11GW erogati negli USA).Il bioenergy asiatico ha raggiunto invece lo scorso anno quello europeo, fino ad allora leader quanto a capacità erogata dai nuovi impianti. Il piano varato da Pechino a gennaio prevede ulteriori investimenti per 361 miliardi di dollari nelle fonti energetiche alternative fino al 2020 al fine di dirottare la produzione energetica del paese sulle rinnovabili per almeno un terzo del totale. Come evidente nell'ultimo report dell’International Renewable Energy Agency, il ruolo dominante di Pechino, nonostante le dichiarazioni non proprio ambientaliste (guarda caso quanto quelle di Trump),è ormai un’evidenza ,non solo con la leadership mondiale nella produzione di celle fotovoltaiche e di batterie agli ioni di litio (oggi anche il più grande produttore di pale eoliche è cinese), ma anche perché Pechino, nel 2016, ha dimostrato di essere intenzionata ad estendere la propria influenza sulle rinnovabili in tutto il mondo con importantissimi investimenti per complessivi , secondo The Guardian , 32 miliardi di dollari con un salto del’60% rispetto al 2015. No, non hanno investito in altri paesi per salvaguardare l’ambiente e non si tratta nemmeno di semplici dichiarazioni programmatiche o di una novità per la Cina che, secondo Bloomberg, nel 2015 aveva già investito internamente 102 miliardi nel settore (per farsi un’idea, il doppio di quanto nello stesso periodo abbiano destinato gli USA alle energie alternative) .Si tratta piuttosto, di un percorso programmato con implicazioni interne fondamentali per l’economia cinese (il programma prevede infatti la creazione di nuovi posti di lavoro per 13 milioni dai circa 4 milioni attuali coinvolti in questo settore)ma pure con l’obbiettivo di instaurare una vera e propria egemonia a livello globale per dominare le tecnologie, la produzione e i servizi connessi a questo inarrestabile trend a mezzo di investimenti verso altri paesi come il Brasile ad esempio. L’India, invece, si prefigge di arrivare al 2030 con oltre il 50% del proprio fabbisogno energetico soddisfatto da energie rinnovabili anche grazie al deciso supporto governativo per lo sviluppo dell’eolico che presto sarà esteso anche al solare con un investimento che tra il 2016 e il 2022 dovrebbe già triplicare con una media di 14 miliardi annui secondo le intenzioni di Nuova Delhi. Tuttavia, ci sono in questo caso alcuni elementi in grado di rendere più complessa questa evoluzione: c’è infatti la mancanza di una rete elettrica sufficientemente vasta e addirittura 300 milioni di persone non connesse, problemi nel reperire fondi (si parla anche da emissioni di bond governativi dedicati) e un mercato finanziario e bancario immaturo. Da queste premesse dovrebbe essere evidente quanto davvero in questi paesi l’interventismo statale giochi ad oggi un ruolo decisivo per il ricorso alle rinnovabili e quanto la vera partita sia quella dell’indipendenza energetica e del controllo globale sulle nuove fonti energetiche, quelle rinnovabili appunto (per definizione, "indipendenti" dall'estero). Altro che ambiente. Quest' ultima considerazione ci rimanda all’amministrazione Trump e alla cancellazione del Clean Power Plan di Obama (in vigore sei mesi poi bloccato dai ricorsi di 27 stati...) e al presunto supporto per l'industria dei combustibili fossili. Il nuovo corso repubblicano non ha nulla contro le rinnovabili, ma, nel caso degli Stati Uniti si tratta di un mercato ormai maturo e con costi di produzione ormai in ribasso e assolutamente competitivi. Mentre negli emergenti non sarebbe immaginabile una svolta “green” senza un massiccio interventismo del governo, non è privo di logica ipotizzare che ciò accada invece in un paese avanzato che già destina storicamente una parte considerevole del proprio sostegno a queste energie (da sempre, anche sotto Obama, è stata l’industria dei combustibili fossili a godere del maggior supporto) e che già gode di importanti sinergie con infrastrutture esistenti ,mercati finanziari avanzati e della presenza delle aziende tecnologicamente più avanzate del globo. La stessa indipendenza energetica sbandierata da Trump, se combinata con la futura fisiologica supremazia delle energie rinnovabili su quelle fossili, giocherà un ruolo di incentivo a favore di queste tecnologie. La posizione di Trump potrebbe certo avere oggi l’effetto di mitigare la crescita delle rinnovabili sul territorio americano e fornire alla Cina un minimo distacco ma, nel lungo termine, garantirà un autonomia totale e un impulso enorme al settore .

Una soluzione di sintesi riguardo quali paesi prendere in considerazione per esporsi al trend delle energie rinnovabili, ci viene fornita dall’indice RECAI (Renewable Energy Country Attractiveness Index) realizzato da EY e capace di ponderare un elevato numero di variabili, da quelle politiche alle variabili macro, dalle risorse naturali a disposizione alle reali possibilità di finanziamento fino alla competitività di prezzo che l’offerta riesce a raggiungere nelle aste per le concessioni energetiche.Comparando la classifica e gli outlook stilati da EY con i portafogli degli strumenti ETF negoziati su Borsa Italiana siamo di fronte a due alternative: l’investimento in strumenti tematici strettamente connessi alle energie alternative oppure prendere in considerazione indici settoriali broad emerging scontando il fatto che il progresso energetico necessario allo sviluppo di questi paesi passa anche dal ricorso sempre maggiore a queste energie ( privilegiando sempre i portafogli con la migliore allocazione paese).

Il SGI World Alternative Energy Index investe per il 45% in USA per poi suddividere il restante 55% in una allocazione molto diversificata con percentuali che vanno dal 4 al 9 per cento a paese ma con solo il 4% alla Cina. Una distribuzione che combina la stabilità degli USA quanto a maturità del mercato, sinergie e infrastrutture esistenti con una grande diversificazione su 11 altri paesi, forse in prospettiva più dinamici, 10 dei quali compresi nell’indice EY e di cui ben 6 tra i primi 20 (sui 40 che compongono l’indice) .Sono 4 i paesi con outlook positivo per il 2017 compresi nel portafoglio. L’indice si propone di investire nelle energie alternative a tutto tondo dalla produzione all’immagazzinamento fino alle tecnologie per l’efficienza e a quelle dedicate alla distribuzione decentralizzata. In tal senso colpisce l’assenza dell’India, paese in cui la produzione decentralizzata è fondamentale, a detta dello stesso Governo, per compensare anche evidenti carenze della rete di distribuzione in termini di copertura rete. La presenza degli emergenti è davvero esigua e limitata alla sola Cina. L’indice ha ormai da poco superato i massimi del 2014.Lo S&P Global Clean Energy propone invece un portafoglio che vede metà del capitale quasi equamente ripartita tra USA e Cina, scommettendo sulle esigenze e sulle ambizioni cinesi senza farsi scoraggiare dalle politiche trumpiane (28% Cina, 24%USA, 10.7%Brasile e 7.5% Giappone, queste le principali componenti). L'indice conta 7 paesi compresi nell’indice RECAI tra i primi 20, ma, con solo un paese, la Norvegia, provvisto di un outlook positivo. Cina e Brasile sono gli unici paesi emergenti considerati.L’indice ha di nuovo raggiunto i massimi assoluti del 2007 coronando un trend partito ormai nel 2009.Anche in considerazione del peso ridotto degli emergenti nei portafogli visti, nel caso si voglia investire su un settoriale emergenti broad per sfruttare l’enorme mole di investimenti che transiteranno prima di tutto sul settore energetico e indirettamente anche sulle energie rinnovabili, lo S&P Emerging Markets Infrastructure Index replica l'andamento di 30 delle maggiori società dei mercati emergenti operanti nel settore delle infrastrutture: 22.25% energia con una composizione in cui si evidenzia il 38% della Cina, il 20% del Brasile, 7% 11.24% per il Messico 7.28% per la Corea del Sud, 7% Malesia, 7% Thailandia, 5% Russia e 3%Cile. Ben 4 sono nelle prime 10 posizioni dell’Indice RECAI e tutte le componenti a parte la Russia rientrano nello stesso a rimarcare come lo sviluppo degli emergenti passi necessariamente dal ricorso a queste energie. Anche questo indice, come i precedenti, è quasi ai massimi storici toccati nel 2015 e 2007. MSCI World Low Carbon permette di investire nelle energie green seguendo una logica differente atta a detenere in portafoglio solo i titoli che si sono dimostrati più attenti a contenere le proprie emissioni di CO2. L’indice non offre un' importante esposizione agli emergenti (con Usa, Giappone e Regno Unito le principali componenti) limitando alla sola Francia con il 3.64.% la presenza di paesi con outlook positivo secondo il RECAI index. Anche prodotti SR (Socially Responsible)e ESG (Environmental, Social and Governance) possono essere presi in considerazione ance se il peso degli energetici in senso stretto è spesso marginale.


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