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MIFID II e DOL Fiduciary Rule: la guerra tra i colossi della gestione passiva entra nel vivo


Un scontro tra titani, questa è oggi il mercato degli ETF, tanto negli Stati Uniti quanto in Europa. Oltreoceano l’83% degli asset investiti in ETF è, ad oggi, in mano a sole tre società, BlackRock 39.6 % Vanguard 24.8% e State Street Global Advisors 19.2% (Invesco Powershares 4.3% e Schwab 2.6%) le quali incassano oltre la metà delle fees pagate lasciando spartire il rimanente agli oltre 70 competitor su un mercato che conta circa 2000 prodotti attualmente quotati. Se l’ascesa degli ETF come strumento finanziario, soprattutto ai danni della gestione attiva è evidente, anche solo se si osserva il recente successo degli Smart Beta, ossia della classe di ETF che più di tutte fa da anello di congiunzione tra gestione attiva e passiva, meno evidente è il consolidamento in atto all’interno dell’industria stessa con un numero sì sempre maggiore di nuovi provider e strumenti introdotti sul mercato americano ma pure di ETF in liquidazione perché non in grado di centrare gli obbiettivi minimi di AUM per sopravvivere e fare profitto. Secondo dati Bloomberg, nei soli Stati Uniti sono stati 98 gli ETF che hanno abbandonato la borsa nel 2016 non essendo risusciti ad attirare capitali superiori ai 50 milioni di dollari , soglia da molti ritenuta minima per competere nel mercato (alcuni brokers chiedono miliardi in AUM per prendere solo in considerazione uno strumento). In Europa, invece, in attesa di raggiungere i mille miliardi di euro in AUM previsti entro il 2020, il numero di nuovi prodotti lanciati sul mercato è in calo ormai da anni a fronte di liquidazioni e delisting in ascesa: osservando lo storico, si passa dal picco del 2010 con oltre 350 quotazioni sulle borse europee a meno di 150 attualmente registrate, mentre liquidazioni e delisting passano dalla trentina registrata negli anni del boom fino alle oltre 120 annue di fine 2016. Da quanto emerge dai dati, chiusure e nuove quotazioni ormai convergono evidenziando una situazione di consolidamento in atto e stabilizzazione evidente che fa pensare ad un mercato che ha raggiunto una condizione di maturità. Nel caso europeo a fare la parte del leone sono gli ETF iShares di BlackRock 46.4%, seguiti dagli Xtrackers di Deutsche AM con il 9.8% e dai Lyxor ETF con una quota di mercato del 9.3%, con infine i prodotti UBS 5.5% e Amundi 4.6% a completare il quadro dei principali emittenti. I primi cinque AM sopra riportati coprono il 75.6% (di un mercato che consta di oltre 26 issuers per "soli" 545 miliardi di euro di AUM), una concentrazione simile a quelle evidenziata nel caso americano. Colpisce, in questo senso, tanto il predominio assoluto della gamma iShares di BlackRock che il posizionamento del colosso Vanguard, solo sesto con una quota di mercato di appena il 4.4 %. Probabilmente le cose sono destinate a cambiare. Non è infatti un caso se Vanguard, entrata solo nel 2001 in un mercato ETF dominato dai prodotti iShares sia arrivata nel 2015 fino a battere per la prima volta BlackRock in quello che è oggi a tutti gli effetti il suo core business, gli ETF appunto, costringendo il gigante ad operare importantissimi (e costosissimi) interventi per arginare il concorrente low cost.

In uno scenario di rendimenti al minimo, equity ai massimi e una gestione attiva che ha evidentemente fallito nel sovraperformare i propri benchmark pur a fronte di commissioni più elevate, gli investitori non hanno avuto dubbi in merito all’opportunità offerta dalle ridottissime fees richieste dagli ETF, decretandone il successo e premiando, in particolare modo, proprio gli emittenti più attenti alla voce “spese” come appunto Vanguard. Solo nel 2016, BlackRock, ha visto oltre il 30% dei suoi fondi attivi fallire nel sovraperformare il benchmark al netto delle spese come peraltro l’80% dei prodotti gestiti a livello mondiale, ma anche un trasferimento netto degli investimenti alla gamma ETF iShares, ormai fiore all’occhiello del colosso americano. Solo nell’ultimo trimestre del 2016 sono stati oltre 600 i milioni usciti dalle gestioni attive BlackRock mentre sono 88 i miliardi confluiti nei replicanti ETF e fondi indicizzati della casa. Anche Goldman Sachs, entrata solo due anni fa nel business dei deep discount ETF, in questo caso smart beta, a fine 2016 aveva già accumulato oltre 2.6 miliardi di dollari di afflussi su questi strumenti che restavano comunque molto più covenienti dell’offerta del leader BlackRock. Nel 2016 pertanto, BlackRock, si è vista costretta ad operare tagli alle commissioni su 15 prodotti di punta in termini di AUM (216 miliardi di AUM interessati dai tagli ossia il 18% degli asst di iShares) della gamma Core (gamma low cost lanciata ormai nel 2012 che alcuni analisti Bloomberg definiscono come “la sola cosa che può impedire a Vanguard il dominio totale”) come ad esempio su iShares MSCI Emerging Markets, terzo fondo equity emerging al mondo,con expense ratio tagliata di un punto base o su iShares Core S&P 500 con asset netti per 118 miliardi di dollari tagliato da 0.07% a 0.04%, ma anche sull’iShares Core US Aggregate Bond altro mostro da 46 miliardi di dollari passato dai precedenti 8 punti base all' attuale 0.05%. La risposta di Vanguard, non si è fatta attendere e tra dicembre a febbraio, il concorrente ha operato ben 3 tagli nelle fees ( già tra le più basse di categoria) su complessivamente 124 classi di prodotto tra le quali 12 ETF tra i più importanti a livello mondiale tra cui il più grande equity emerging del mondo (tagliato anch’esso di un punto base come il corrispondente BlackRock). Nonostante la ridotta presenza su suolo europeo in campo ETF , Vanguard insidia ormai da anni il primato di BlackRock puntando proprio sulla convinzione del fondatore John Bogle secondo la quale, per chi voglia possedere una quota di un mercato, la migliore strategia possibile sia cominciare dal controllo dei costi, un obbiettivo raggiunto anche tramite l’indicizzazione già dal 1976 con il primo fondo equity indicizzato al mondo e continuata fino ad oggi con 7 dei 10 fondi più richiesti del 2016 che portano la sua firma. Anche la struttura della società è differente da quella delle dirette concorrenti ed ha inciso sulla sua capacità di mantenere altissimi livelli di competitività sulle commissioni. Vanguard è infatti una società 100% posseduta dai risparmiatori, il che non significa assolutamente no profit, ma bensì che le sue attività sono per definizione esenti da conflitto di interesse visto che azionisti e investitori spesso coincidono. I profitti sono redistribuiti tramite la riduzione delle commissione sui prodotti stessi oggi in media sotto lo 0.12% (BlackRock grazie ai tagli è riuscita ad arrivare in media allo stesso livello). Investiti in prodotti Vanguard ci sono oggi 4.200 miliardi di dollari tra fondi indicizzati e ETF (700 miliardi) rispetto ai 5140 miliardi di dollari investiti in BlackRock comprendendo ovviamente la gestione attiva : BlackRock riesce a battere il rivale grazie alle gestioni istituzionali ma primeggia oggi anche sugli ETF (1.1 mila miliardi di dollari) mentre Vnguard resta leader della gestione fondi indicizzata e mantiene il secondo posto sul mercato ETF mondiale. Il trasferimento di risorse dai colossi dell’Asset Managamennt agli investitori ammonta, solo per i recenti tagli su ETF cui si è accennato, a centinaia di milioni di dollari, ma si tratta di riduzioni ormai imprescindibili per continuare a competere in un mercato che offre margini di manovra minimi alla voce costi ma nel contempo interessantissime prospettive di crescita su volumi ed annesse economie di scala, quelle stesse che da sempre sostengono l’offerta low cost a marchio Vanguard e che, probabilmente, per la difficoltà nel riproporle in Europa, hanno contribuito a moderarne fino ad oggi la presenza. Se l’eliminazione di ogni potenziale conflitto di interesse i costi ridotti e i volumi sono alla base dell’odierno confronto tra i giganti del panorama ETF, non stupisce che la “guerra dei costi”, si sia intensificata negli ultimi mesi con l’ormai imminente entrata in vigore delle normative MIFID II in Europa e della Fiduciary Rule elaborata dal Labour Department (nonché dei nuovi regolamenti SEC) negli USA. L’impatto delle nuove normative, in vigore entrambe entro gennaio 2018, estremizzerà ulteriormente la competizione sulle commissioni dando un impulso, secondo alcuni gigantesco, alla crescita del settore ETF esplicitandone ulteriormente il differenziale rispetto alla gestione attiva e aumentando la confidenza da parte degli investitori più scettici. Secondo un sondaggio di BNY Mellon il 55% degli investitori in ETF aumenterà la quota di capitale investita in questi strumenti in considerazione dell’entrata in vigore della nuova normativa. Negli USA la Department of Labour Fiduciary Rule, anche definita Rule on Conflict of Interest, ridefinisce il termine "fiduciario" dai tempi dell’Employee Retirement Income Security Act ossia dopo oltre 40 anni, ed entrerà definitivamente in vigore a partire da gennaio 2018 dopo un periodo di prova partito già da questo giugno e una serie di rimandi quasi infinita: citiamo le richieste delle stesse BlackRock, Vanguard e Invesco che chiedevano più tempo per adeguarsi ai nuovi requisiti, le molte proteste da parte degli stessi AM (Vanguard esclusa…) e la richiesta del neo eletto Presidente Trump di uno stop di oltre 100 giorni per compiere un studio che analizzasse gli effetti dell’entrata in vigore di queste normative sul settore dell’AM americano (la riforma era stata fortemente appoggiata da Obama). Il nuovo impianto normativo obbligherà “de facto” i professionisti della finanza a comportarsi appunto come fiduciari nei confronti della loro clientela, anteponendo, per legge, l’interesse del cliente al proprio. Le nuove regole riguardano tutti i soggetti che forniscono i loro servizi in riferimento ai retirement plans tradizionali o 401(k)s (a seconda che sia la compagnia presso la quale si lavora a scegliere il tipo di portafoglio o il contribuente in autonomia), ossia i risparmi pensionistici americani, e, di conseguenza , anche tutti big dell’AM oltre a brokers traders assicuratori etc. In assenza di conflitti d’interesse e con maggiore trasparenza e fees ridotte il successo degli ETF nella conquista dei nuovi investitori sarà garantito. E si tratta di molti nuovi investitori, come sa bene iShares, per il quale i retirements plans americani sono in assolto il miglior cliente, ormai da diversi anni. Oltretutto, la generazione dei baby boomers (oltre 7 milioni nei soli Stati Uniti) raggiunge proprio in questi anni l’età pensionabile o comincia comunque a prendere in considerazione di iniziare ad accumulare risorse in questo senso (pre-retirement plans). Si parla di quasi 7 mila miliardi di dollari, insomma di un business immenso che i colossi del mercato ETF non vogliono certo farsi sfuggire anche in ragione del necessario raggiungimento di quei volumi indispensabili per procedere ad eventuali ulteriori tagli nelle fees .

Secondo BNY Mellon, l’inevitabile aumento nei costi di compliance e il necessario supporto tecnologico e di know how necessario a far fronte a queste nuove esigenze, porterà molto probabilmente ad un concentrazione ancora maggiore nel mercato. Saranno molti i piccoli brokers, traders o advisors ad essere acquisiti da operatori di maggiori dimensioni o che con questi dovranno stringere necessariamente delle partneship perdendo magari la propria indipendenza. Non è un caso che noti colossi assicurativi USA come MetLife e AIG abbiano di recente venduto le rispettive divisioni di brokeraggio a causa del previsto aumento dei costi (o riduzione dei margini…). In Europa, se la MIFID aveva contribuito a ridurre le barriere tra paesi per i servizi finanziari e ad aumentare trasparenza e sicurezza (secondo molti non a sufficienza), la MIFID II , in vigore dal 3 gennaio 2018, tra le molte implicazioni comporterà anche la precisa ed esplicita quantificazione dei costi dell’investimento in valuta locale e la fine delle retrocessioni pagate dalle case di gestione alle banche collocatrici e quindi ai promotori finanziari. L’effetto di una maggiore trasparenza sui costi e la riduzione degli episodi di conflitto d’interesse dovrebbe essere il medesimo di quello auspicato negli USA, ossia afflussi record sugli ETF. Un’altra implicazione interessante: fino ad ora la strumentazione ETF non è stata regolata dalla normativa MIFID mentre la MIFID II genererà maggiore trasparenza anche su questi strumenti in anche portando in maggiore evidenza le dinamiche di prezzo e dei volumi. Emergeranno quelle che si presumono essere ingenti porzioni di liquidità sommersa e non evidente perché non si teneva conto di buona parte degli scambi su ETF. L’obbligo di rendicontazione per gli ETF potrebbe far emergere volumi ufficiali anche quattro volte superiori praticamente di colpo. Il risultato finale sarà quello di rendere questi strumenti ancora più appetibili. Le implicazioni della MIFID II tuttavia non si limiteranno a quanto visto finora ma avranno ripercussioni pure sulle pratiche del security lending. Secondo molti analisti, la MIFID II aumentando i livelli di trasparenza sui costi dell’investimento, evidenzierà anche i benefici del securty lending sui TER, Questa pratica, utilizzata da oltre il 30% degli ETF quotati negli Stati Uniti, è invece ancora poco diffusa nel panorama ETF europeo a causa delle molte perplessità circa i rischi da esso derivanti per la non immediata disponibilità dei titoli prestati in caso di necessità, coperture a parte, potrebbe pertando estendersi. Per quanto riguarda le retrocessioni ai collocatori, in un sistema come quello sud europeo e specialmente in Italia, dove è ancora saldo il ruolo di intermediazione delle banche (che aumenta enormemente i costi dell'investimento), il nuovo impianto normativo costituirà senza dubbio un cambiamento radicale e l’eliminazione di una potenziale fonte di conflitto d’interesse non potrà che spingere asset più meritevoli. Su Borsa Italiana gli emittenti di ETF rivedono i propri “listini” al ribasso (Xtrackers ad esempio) mentre le nuove quotazioni puntano sin da subito su regimi commissionali aggressivi come nel caso degli HSBC ETF appena sbarcati su Borsa Italiana . La gestione attiva, dal canto suo, impossibilitata a ridurre le fees oltre un certo limite, prova a contenere i costi tramite la disintermediazione data dalla quotazione diretta dei prodotti in borsa e spera in un cambiamento delle condizioni di mercato viste negli ultimi anni, particolarmente favorevoli all’investimento in ETF. Si fa riferimento alla fine dell’ingerenza da parte delle banche centrali e all’ipotetico venirsi a creare di una situazione in cui molte delle correlazioni viste negli ultimi anni verranno a mancare rendendo secondo alcuni l’approccio attivo addirittura meno rischioso di quello passivo.


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