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Le molte facce di un compromesso: ETF e securities lending


In Europa il securities lending è compreso in quelle negoziazioni OTC che ricadono sotto il nome di Securities Financing Transactions (SFT) le quali, oltre all’impatto indiretto delle disposizioni generali di MIFID II, MIFIR ed EMIR , incontreranno una regolamentazione dedicata che entrerà in vigore entro la fine del 2018, anche in questo caso, dopo non poche e complesse consultazioni ( durate dal 2015 ad oggi) tra i regolatori e i protagonisti del sistema finanziario. Dopo i reuse requirements in vigore da luglio 2016, il 2017 completerà la fase relativa all’entrata in vigore delle nuove norme sulle disclosures lasciando la parte relativa ai reporting requirements ad essere recepita entro fine 2018 quando le firms avranno esaurito i dodici mesi di tempo concessi per iniziare a riportare i dati relativi i propri SFT ai propri trade repository “EU approved”. La Regulation on Transparency of Securities Financing Transactions (SFTR), i cui ultimi dati tecnici sono stati approvati dall’ESMA a luglio, costituirà così, dal lato europeo, un ulteriore passo nel solco dell’iniziativa globale atta a portare le transazioni che avvengono su canali non regolamentati a rispettare regole più stringenti in termini di standardizzazione, trasparenza e reporting, estendendo in buona parte i requisiti già visti con l’EMIR (peraltro anch’essi oggetto di un’evoluzione) anche a queste transazioni SFT (buy back/ sell back, TR swaps, repurchase agreements e naturalmente securities lending). L’obiettivo principale delle nuove regole è quello di aumentare il grado di comprensione e tutela dal rischio sistemico all’interno dei mercati finanziari sostenendo nello stesso tempo lo sviluppo di un mercato unico dei servizi finanziari in Europa, capace di creare, nel tempo, migliori condizioni per tutti i partecipanti. Tali regolamenti includono naturalmente anche gli UCITS e gli AIMFS (e le loro management companies) sottoponendoli di fatto ad una duplice regolamentazione qualora siano controparte in operazioni OTC riconducibili agli SFT. Il securities lending, nel caso degli ETF, implica il prestito di titoli che costituiscono il portafoglio dello strumento (restano comunque nel patrimonio del fondo), siano questi equity o bond, ad una controparte in cambio di garanzie rappresentate da altra equity, bond o anche cash (collateral), queste ultime inequivocabilmente di valore almeno pari a quello dei titoli prestati e mantenuto tale nel tempo. Naturalmente il prenditore paga una commissione mensile durante la durata del prestito, ma è obbligato in qualunque momento, in caso di richiesta, a provvedere alla restituzione dei titoli entro un periodo di alcuni giorni (quindi anche prima dei canonici tre mesi di durata del contratto ). Eventuali dividendi o cedole pagate dai titoli oggetto del prestito durante il periodo del contratto saranno retrocessi al prestatore mentre i diritti di voto corrispondenti non potranno essere esercitati. Le ragioni per le quali i titoli (ma pure gli ETF stessi) vengono presi a prestito sono per lo più riconducibili a finalità quali il supporto all’attività di market making o per altre attività di trading come l’hedging e lo short selling. In generale, a ricoprire il ruolo di prestatori sono i fondi pensione, le compagnie assicurative, i fondi d’investimento ed appunto gli ETF (che insieme costituiscono il 66% dell’offerta globale), i quali si rivolgono ad un agent, tipicamente definito custodian (per gli issuer di maggiori dimensioni, in grado di internalizzare la gestione del lending e la relativa quota profitti, si tratta di una propria branch come nel caso di BlackRock o di State Street), che sposa l’offerta con la domanda proveniente da banche d’investimento, market makers, brokers e dealers. Questi ultimi, a fronte del trasferimento dei titoli dal lender, forniranno il collateral a garanzia del prestito, e saranno a disposizione con la loro struttura per l’impiego dei titoli da parte del mercato ossia fondi hedge, traders etc (utilizzatori finali). Gli ETF, si prestano particolarmente al lending dei titoli in portafoglio giacché, non trattandosi di gestioni attive, non sono soggetti alla movimentazione costante e imprevedibile del portafoglio ossia a compravendite continue dei titoli ivi compresi mettendo quindi a disposizione contratti di lending che minimizzano la possibilità che queste securities vengano richiamate dal lender prima della scadenza del contratto. Negli ultimi dodici mesi, secondo gli ultimi dati ISLA (International Securities Lending Association), gli asset suscettibili di essere impiegati per l’attività di lending hanno visto un incremento di mille miliardi di dollari, dai 14 calcolati a giugno 2016 ai 15 odierni. Tuttavia la quantità di asset effettivamente coinvolta nelle attività di securities lending è diminuita negli ultimi sei mesi del 2016, un dato rilevante se si osserva che dal 2014 non si era mai registrato un calo tantomeno di questa entità, considerato che i dati parlano addirittura di un secco meno 6% da 1.8 mila miliardi di dollari a 1.6 mila miliardi. In particolare dai dati emerge chiaramente che i fondi comuni (UCITS) non replicano il primato visto nella disponibilità di risorse suscettibile di lending quando si parla di titoli effettivamente destinati a questo scopo: il loro effettivo contributo si riduce a solo 15% del totale a dicembre 2016. Naturalmente parte delle ragioni sono imputabili alle norme cui sono sottoposti in Europa alcuni lenders, alle quali si è accennato sopra, maturate in questi anni di consultazioni con dettagli tecnici sempre più restrittivi, ed il cui impatto immediato era prevedibile. I dati per regione evidenziano anche la distanza tra un mercato maturo e non frammentato come quello USA e un’Europa che cerca di creare delle solide basi sulle quali costruire in sicurezza un mercato altrettanto vasto e dinamico: il valore dei prestiti in Europa ammonta, infatti, a un modesto 17% del valore totale di queste operazioni mentre gli Stati Uniti coprono da soli il 67% (+ Canada) con l’Asia ancora lontana al 15%. La pratica del lending costituisce unanimamente un presupposto vitale dei mercati finanziari odierni, e la sua importanza va certo ben oltre il suo impiego da parte degli ETF venendo persino considerata una fonte di efficienza perché aumenta il numero di venditori e la liquidità del mercato restringendo quindi gli spread e abbassando i costi (quindi potenzialmente anche il tracking error negli ETF). Tuttavia, non poche sono le critiche mosse al suo impiego, innanzitutto proprio in merito alla teoria che vede lo short selling esclusivamente come un fattore equilibrante. Si obbietta infatti che il lending, supportando tecniche di trading potenzialmente aggressive come appunto le vendite allo scoperto, possa intensificare episodi di flash crash soprattutto in accoppiata con l’impiego del trading automatizzato (altra pratica che preoccupa particolarmente i regolatori) . Nel caso specifico degli ETF poi, è evidente come il prestito dei titoli in portafoglio a soggetti intenzionati a shortare gli stessi esponga in primis proprio i detentori delle quote dell’ETF a tali repentine diminuzioni di valore. Anche l’impossibilità per l’ETF di esercitare i diritti di voto legati alle azioni in portafoglio una volta prestate è un aspetto da non sottovalutare in quanto impedisce al gestore di far valere gli interessi dei detentori delle quote su decisioni suscettibili di impattare sul valore delle stesse. Siccome poi l’issuer ottiene comunque un beneficio dal lending, ma non necessariamente si assume parte dei rischi connessi, a differenza dei detentori delle quote che vi sono pienamente esposti, il conflitto d’interesse di questo nei confronti degli investitori, è un fattore rilevante. Tuttavia, come in ogni prestito, il rischio maggiore consiste nell’insolvenza del prenditore associata a una diminuzione di valore nel collateral tale da renderlo insufficiente a sostenere il costo di riacquisto sul mercato dei titoli oggetto di lending: in sostanza, il borrower non è più in grado di provvedere al riallineamento quotidiano tra il valore del collateral e il valore dei titoli presi a prestito. Con il ricorso al securities lending si origina insomma un rischio di controparte che porta questi ETF ad assomigliare, in una certa misura, alle tanto osteggiate repliche sintetiche, che come ben noto presentano il rischio intrinseco di default della/e controparte/i swap. In tal senso assume dunque particolare rilievo la policy adottata dal lender e dal suo agent per contenere i rischi, in merito alla composizione del collateral accettato (fatti salvi i requisiti minimi di legge), riguardo la scelta della percentuale del portafoglio dell’ETF che viene coinvolta nel prestito ma anche le decisioni in merito alle caratteristiche dei borrower con cui si accetta di stipulare contratti. Il collateral, dovrebbe godere in generale di tutte le considerazioni che si applicherebbero un portafoglio titoli “avverso al rischio”, innanzitutto in termini di diversificazione a livello paese, mercato,liquidità ed emittente. Per soddisfare quest ultimo criterio, la normativa UCITS limita al 20% del NAV dell'fondo il peso di uno stesso emittente nel portafoglio adibito a collateral ma molti ETF sono capped a livelli di molto inferiori (spesso al 10%) per iniziativa dell’issuer. In deroga a tale limite, la collateralizzazione può avvenire tramite le emissioni di un solo issuer solo in caso coinvolga il 100% del NAV dell'UCITS, sia implementata a mezzo di titoli di stato e government backed securities e nel rispetto delle restrizioni al 30% max del NAV del fondo per singola emissione e numero minimo delle stesse fissato a sei. La parte cash può essere reinvestita indicativamente in strumenti del mercato monetario, depositi, repo con specifiche caratteristiche e, comunque adeguatamente diversificata anche secondo i limiti visti al 20% per la parte non cash. Questa porzione di portafoglio viene naturalmente conteggiata nel raggiungimento dei limiti sopra citati e valutata in aggregato insieme a tutte le altre posizioni di lending in essere. Si dovranno poi considerare anche altri fattori come ad esempio la minimizzazione della correlazione tra il valore collaterale stesso e lo stato di salute del borrower: in proposito la normativa chiarisce ad esempio che non è possibile fornire come collateral un’emissione del borrower stesso. La possibilità di subire forti perdite a seguito di importanti diminuzioni di valore di alcuni asset a mezzo dei quali è collateralizzato un prestito titoli non è solo un’ipotesi: basti pensare ai contratti di securities lending che nel 2008 avevano portato alcuni lenders a detenere ABS, MBS o obbligazioni Lehman Brothers in qualità di collateral spesso acquistate reinvestendo la parte cash dello stesso paniere a garanzia per ottenere maggiori profitti. Specificatamente, in relazione al reinvestimento della parte cash del collateral, che de facto dovrebbe essere la meno rischiosa finché non viene reinvestita in modo poco responsabile, i regolatori hanno operato disposizioni precise. Oggi il reinvestimento di questa tende ad essere regolato al pari del resto del collateral al fine di garantirne la stabilità del valore nel tempo, ossia in modo prudenziale, ed alcuni issuer, come ad esempio HSBC, addirittura la accettano solo su base intraday in attesa di ricevere non cash collateral. L’overcollateralization, ossia il mantenimento del collateral ad un valore sempre in una certa misura superiore a quello dei titoli prestati è ovviamente la norma al fine di tutelare maggiormente il possessore delle quote dello strumento (la copertura al 100% è requisito minimo sia in Europa che negli USA dove a livello pratico non si scende sotto il 102 % per equity domestica e il 105% per quella internazionale).Anche per la parte della garanzia che eccede i requisiti minimi di collateralizzazione, restano validi i requisiti e i limiti di legge previsti per il collateral in termini di limiti all’investimento. Per ridurre ulteriormente il rischio di disallineamento tra valore del collateral e quello dei titoli prestati in caso di problemi del borrower, alcuni issuer come iShares, SPDR e Xtrackers forniscono addirittura un’indennità a disposizione degli ETF che rimborserebbe il fondo del differenziale in questione (tali garanzie non coprono il rischio derivante dal reinvestimento del cash collateral sul mercato e sono sostenute con parte del ricavato del lending stesso).E’ necessario a questo punto chiedersi a fronte di quali benefici un investitore sia disposto accettare i rischi insiti nel “compromesso” del securities lending. Quanto realmente una di queste operazioni possa essere vantaggiosa dipende strettamente dalla quota profitti destinata all’ETF e dalla percentuale di portafoglio prestata, questa valutata anche in base alle caratteristiche dei titoli prestati (scarsità degli stessi, ad esempio). Secondo dati BlackRock, che vanta un’esperienza ormai trentennale nel settore del lending, nel 2016 la gamma ETF del più grande asset manager mondiale ha registrato i seguenti incassi dal lending nelle diverse categorie di ETF: developed equity ha raccolto tra gli 0.8 e i 18.7 punti base, tra 7.6 e 49.5 punti base per la gamma emerging equity mentre la gamma bond ha incassato tra i 2.3 e i 20 punti base. Possono sembrare percentuali irrisorie ma in un mercato come quello degli ETF che offre per definizione commissioni ridottissime e compete spesso proprio su differenze di prezzo minime, questi dati sono emblematici e ben chiariscono l’impatto fondamentale del lending specialmente in piena fee war. BlackRock calcola infatti che il rendimento prodotto dal lending a fine 2016, ad esempio per un prodotto come il iShares $ Treasury Bond 7-10yr UCITS ETF USD (Dist) era potenzialmente in grado di generare un ritorno tale da ridurre le fee al cliente addirittura del 71% mentre iShares MSCI EM Small Cap UCITS ETF USD (Dist) sarebbe stato in grado di incassare quanto necessario per ridurre le proprie del 67% e iShares S&P 500 UCITS ETF USD (Dist) avrebbe registrato una diminuzione potenziale nell’ordine del 2%. Se guardiamo agli USA, che costituiscono l’esempio per quanto riguarda la creazione di un mercato unico europeo come quello verso cui spingono le normative in fase di implementazione, prendendo in considerazione strumenti oltre il miliardo di dollari di assets, iShares Russell 2000 Growth ETF a fronte di 25 punti base di expense ratio ha tratto dall’attività di lending quanto necessario a ridurre potenzialmente le fee del 148% mentre il classico iShares Russell 2000 ETF del 130% su 20 punti base di expense ratio: si viaggia insomma verso una condizione di potenziale zero fee. Al di la di questi dati però, l’effettiva trasmissione di questi benefici all’utenza finale passa attraverso la policy adottata dall’emittente in merito alla divisione di questi profitti. Si comprende dunque perché la normativa si sia concentrata anche sull’esplicitazione (disclosing) delle percentuali di tali profitti che vengono destinate alla remunerazione di issuer/ agent e della parte che resta invece di competenza dell’ETF, insieme con i rischi del lending stesso in quella che, senza un adeguato bilanciamento, sarebbe infatti una condizione di evidente conflitto d’interesse. Nel panorama europeo Amundi ETF, Xtrakers ETF, iShares e SPDR ETF destinano all’ETF, nell’ambito dei rispettivi programmi di lending ,una quota dei profitti del lending in media compresa tra il 62.5% e il 70% con i prodotti Vanguard che si confermano come i più generosi (anche grazie alla gamma già in partenza low cost e, in Europa, molto meno varia di quella della concorrenza) con il 90% delle revenues lorde (il 100% dei profitti una volta nettati dei costi) che torna all’ETF. Menzioniamo anche i prodotti HSBC che arrivano a mantenere nella disponibilità dell’ETF un 85% minimo delle revenues lorde dedicando al lending massimo il 20% del portafoglio. Negli USA le percentuali sono anche superiori con ad esempio gli ETF iShares che girano all’ETF in media l’80% delle revenues e adottano addirittura meccanismi in grado di ridurre ulteriormente le percentuali a beneficio dell’issuer (e agent in questo caso) una volta che le revenues lorde sulla gamma prodotti si spingono oltre determinati livelli positivi.Naturalmente per valutare correttamente un programma di lending non si può limitare l’indagine a queste più o meno invitanti percentuali soprattutto in quanto esse non esplicitano informazioni in riferimento al rischio che si corre per incassare questi extra profitti. La quota massima del portafoglio che può essere destinata al lending è dunque un altro fattore importante a livello di rischio/rendimento e pertanto, anche in questo caso, fonte d’interessi contrapposti tra issuer e detentore delle quote. Sostenere che esporsi per una quota maggiore del portafoglio sia contro l’interesse del detentore dell’ETF non costituisce un’affermazione corretta, mentre esporsi per una quota del portafoglio “eccessiva” in considerazione della specifica natura dei titoli coinvolti e delle loro caratteristiche massimizzando sia i potenziali profitti che i rischi è invece sicuramente contro l’interesse di chi detiene le quote. Una “gestione conservativa” consiste nell’impegnare ad in un prestito titoli quote di portafoglio inferiori ma composte da titoli difficili da reperire ottenendo così buoni guadagni magari simili, come pure i rischi, a quelli ottenibili con il lending di fette maggiori del patrimonio ma composte da titoli facilmente reperibili e quindi individualmente meno remunerativi se impiegati nel lending. In entrambi i casi l’esposizione ad eventi di default sarà minimizzata. Mentre negli USA, un sistema maturo, il lending non può mai superare 1/3 del valore del fondo e in Canada il limite è fissato al 50%, in UE invece si attesta da prospetto al 100% per i principali domicili ma con il superamento del 30% la normativa UCITS chiede lo svolgimento di adeguati stress test dedicati. Queste percentuali sono poi de facto in media molto più basse in quanto gli issuer le limitano volontariamente ( la gamma iShares, ad esempio, in media al 13%), tanto nel caso europeo quanto per i prodotti sotto la sorveglianza SEC. Quanto alla percentuale massima di portafoglio destinata al lending, mentre iShares non pone oggi limiti ex ante al ricorso a tale pratica, SPDR ETF presta fino al 70% del NAV, Amundi ETF Xtrakers ETF vedono il ricorso al lending capped rispettivamente al 45% e al 50% mentre Lyxor e Vanguard presentano le politiche più restrittive in merito con il limite dello 0% scelto dai manager francesi e del 15% per i prodotti del colosso americano. Finora abbiamo necessariamente ragionato in termini di media, ma, sia le percentuali di portafoglio interessate dal lending quanto quelle di volta in volta destinate all’ETF o alle controparti , variano molto da prodotto a prodotto e nel tempo (da tenere in considerazione anche il grado di esposizione massima raggiunta dal fondo che ad esempio per iShares $ Treasury Bond 1-3yr UCITS ETF è arrivato anche al 95%) ed è bene informarsi sul sito e sulla documentazione legale dell’emittente per i dettagli sul singolo strumento. In considerazione di quanto sopra esposto pertanto, il compromesso rappresentato del securities lending va accettato sempre tenendo a mente che dietro i costi ridotti di un ETF non necessariamente c’è’ una strategia efficiente anche per il cliente. Certo, per potersi permettere una gestione attenta ai rischi non si deve ambire ad eccessive riduzioni delle fee per tramite del lending, pratica che come visto genera a sua volta dei rischi. Un efficientamento dello strumento in se e delle sue fee prima dell’eventuale applicazione del lending rimane l’alternativa migliore in quanto è in grado, a priori, di ridurre al minimo il ricorso a queste pratiche pur mantenendo lo strumento competitivo sul mercato. Naturalmente non è pensabile che i veri e propri crolli nelle fee visti di recente siano da imputarsi esclusivamente a strumenti divenuti improvvisamente più efficienti ne tantomeno ad un improvviso e massiccio impiego del lending: forse certe disclosures erano insomma davvero necessarie. Un'altra evidenza merita una breve trattazione. L’impiego degli ETF stessi quale collateral nell’industria del securites lending è un fenomeno per il quale sussistono oggi i presupposti per un importante ampiamento. I fattori che spiegano l’interesse per questi strumenti quali garanzie per operazioni di vario genere sono molteplici. La liquidità presente di questi strumenti e il suo previsto aumento, secondo un’indagine Markit, sono le ragioni principali ma altre e ragioni sono da ricercarsi nella presenza di replicanti anche non long-only, nell’ambizione degli ETF di divenire a breve strumenti buy and hold e nell’allargamento dell’offerta su indici fixed income. In generale, anche le similitudini di questi strumenti con l’equity in termini di comodità di negoziazione su canali di borsa regolamentati e standardizzati e la possibilità di essere shortati contribuiscono a tale successo. Anche i margini più ampi per l’operatività in derivati richiesti dalle normative (Dodd Frank negli USAe EMIR in Europa) non faranno che aumentare la richiesta di collateral altamente versatile e liquido, come appunto gli ETF. Gli investitori istituzionali che popolano l’OTC non sono certo nuovi all’impiego di questi strumenti: circa il 70% dei volumi negoziati appare infatti essere concentrato nell’OTC mentre solo il 30% avviene su canali di borsa, una situazione diametralmente opposta a quella che si evidenzia negli USA dove le percentuali rimangono le stesse ma evidenziando un ruolo secondario proprio dell’Over The Counter. In Europa infatti il mercato retail conta per gli ETF solo per un modesto 10% mentre quello USA quattro volte tanto. Alla luce di questi dati risulta evidente l’enorme liquidità che gli ETF europei ancora celano nell’OTC. Secondo Markit, solo il 5% degli ETF è attualmente utilizzato come collaterale in attività di securities lending in Europa a fronte di un 30% individuato dalle analisi del provider sul mercato USA: la percentuale riferita al vecchio continente è la stessa da almeno 5 anni, ossia dall’entrata in vigore delle nuove norme UCITS e durante tutto il tempo rivelatosi necessario per l’entrata in vigore del nuovo impianto normativo. Markit, ha intanto proposto delle liste di ETF a suo giudizio utilizzabili allo scopo di collateral per il lending: in sostanza, tra fixed income ed equity ETF, secondo una selezione che considera elementi come leverage, AUM, tracking difference, esposizione geografica, il provider individua 61 equity ETF (AUM 480 miliardi $) e 22 fixed income ETF (AUM 35 miliardi$) di strumenti suscettibili di essere impiegati come collateral in queste operazioni. La normativa UCITS considera attualmente gli ETF eligible collateral per gli stessi ETF. Non si tratta solo di ETF obbligazionari. Se fino a ieri i bond governativi erano infatti la sola vera forma di collateral accettata , ora stiamo assistendo anche alla diffusione di collateral basati sulle componenti dei principali indici equity . Di conseguenza l’impiego degli ETF più capitalizzati costruiti su tali indici per la collateralizzazione del lending non stupisce. BlackRock e Stete Street e BNY Mellon in qualità di leader nel ruolo di agenti per il lending e molte altre primarie istituzioni stiano prendendo questa direzione anche accettando le liste Markit. In Europa BlackRock accettava, già nel 2015, ETF iShares sull’azionario cinese come collaterale sul lending operato da alcuni suoi bond US ETF subendo già allora non poche critiche. Secondo dati ISLA la ripartizione del non cash collateral impiegato per le operazioni di lending, approssimativamente al 50% tra equity e bonds a dicembre 2016, rifletteva un atteggiamento prudenziale da parte degli istituzionali in merito ad un prevedibilmente movimentato 2017. Un simile peso dell’equity come forma di collateral non potrà che sostenere lo sviluppo degli ETF anche in questa nuova veste.


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