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Bond market: gli ETF cercano di cambiare le regole del gioco anche nella roccaforte della gestione a


Se l’estate 2017 ha portato in dote ai gestori dei fondi PIMCO, leader in campo fixed income, il raggiungimento dei migliori risultati dalla fine dell'era Bill Gross (terminata nel 2015) con 1610 miliardi di dollari di asset complessivi e la miglior raccolta trimestrale da allora, questi in buona parte confluiti nel PIMCO Income Fund, l’anno in corso ha fatto registrare flussi senza precedenti anche sugli ETF obbligazionari. Questi ultimi, se i record di crescita odierni si mantenessero costanti nel tempo, sarebbero in grado di raddoppiare i propri AUM entro il 2022 superando poi, entro quindici anni, i 2000 miliardi di dollari. Gli ETF hanno già colonizzato i mercati dell’equity, contribuendo, a titolo di esempio, per oltre il 40% dei volumi scambiati sull’equity US ma, anche perchè arrivati sul mercato in un tempo successivo, il loro impiego nel settore fixed income non è oggi altrettanto diffuso: gli ultimi dati SIFMA parlano infatti di una percentuale molto ridotta ed intorno all’1% del mercato coperta da bond ETF e di AUM a quota 700 miliardi di dollari sugli oltre 4000 investiti complessivamente negli Exchange Traded Funds. Questi strumenti, stanno però rivoluzionando, seppur silenziosamente, il mercato del fixed income ed oggi, come del resto suggeriscono i flussi sopra osservati, anche in questo settore la competizione tra gestione attiva e passiva risulta evidente con i gestori tradizionali ancora leader indiscussi ma trincerati dietro performance sostenute anche da alcune caratteristiche strutturali tipiche di questo mercato e risultate fino ad oggi insormontabili per i replicanti. Infatti, nonostante il profilo commissionale resti a vantaggio degli ETF anche in campo fixed income (più ridotta la divergenza ma comunque rilevante a causa della natura buy and hold tipica dei bond)[1], sembra che la nota supremazia evidenziata dalla gestione passiva su quella attiva in campo equity, dove in media oltre il 65% (percentuale molto più alta secondo diversi studi) dei replicanti sovraperforma le gestioni attive corrispondenti, si ripeta, questa volta diametralmente opposta, quando si prende in esame il settore fixed income, nel quale, in media, il 61% dei gestori attivi è riuscito nel 2016 a fare meglio del benchmark surclassando quindi il concorrente passivo. Si tratta, secondo un’analisi condotta da PIMCO, di un'evidenza riscontrabile anche prendendo in esame gli ultimi tre, cinque, sette e 10 anni. A motivare una condizione che vede i gestori obbligazionari davvero in grado di sovraperformare il benchmark (e quindi il corrispondente ETF) a differenza di quanto accade sui fondi azionari, c’è, in primis, una fondamentale differenza tra i due mercati in termini di liquidità, questa in buona parte dovuta allo svolgimento delle negoziazioni obbligazionarie principalmente OTC anziché sui circuiti di borsa nonché alla dimensione media delle stesse: il numero di scambi azionari effettuati sui principali canali borsistici appare infatti 44 volte superiore a quello registrato per i bond corp investment grade più diffusi e ancor più vasto rispetto a quanto osservato per i prodotti corp high yield, mentre, in termini di size media degli ordini, i bond negoziano quantitativi 100 volte superiori di titoli. Si tratta di una caratteristica che non stupisce se si considera la platea di investitori più numerosa ed eterogenea che negozia in borsa, rispetto a quella esclusivamente istituzionale che tratta i bond OTC. In media, un titolo obbligazionario è considerato “liquido” OTC se arriva a scambiare 3 o 4 volte al giorno rispetto alle diverse migliaia di scambi che portano un’ azione a meritare il medesimo appellativo su un mercato regolamentato. La liquidità dei mercati sottostanti è però un elemento fondamentale per le caratteristiche strutturali di un replicante, ed è basilare per costruire indici efficienti ( securities sempre disponibili e ad un prezzo univoco e condiviso) e quindi semplici da replicare per gli ETF. Un gestore obbligazionario attivo può invece acquistare questi strumenti senza curarsi della loro quotazione OTC [2]grazie ad una maggiore flessibilità per quanto attiene la liquidità degli stessi godendo quindi della fetta più consistente dell'offerta obbligazionaria [3] quella non quotata. In effetti, mentre un gestore attivo considera anche 50000 bond per le sue scelte d’investimento, i bond indexes raramente si spingono oltre le 15000 componenti. Il segmento fixed income risulta quindi difficilmente aggredibile per strumenti che necessitano livelli di liquidità molto elevati. Tuttavia le cose stanno cambiando, e gli ETF sembrano aver trovato finalmente la soluzione al problema veicolando un radicale cambiamento della struttura stessa del mercato obbligazionario. Negli ultimi anni abbiamo infatti assistito ad un’ulteriore riduzione della liquidità sull’OTC, in parte collegata al fatto che gli ETF stanno generando una massiccia democratizzazione dell’accesso al mercato dei bond, allargando il ventaglio di possibili investitori e convincendo molti grandi investitori a preferire la versatilità e la liquidità sempre maggiore di questi strumenti quotati piuttosto che la negoziare di singoli titoli sottostanti tra privati, fintanto da impiegarli addirittura in operazioni per le quali, fino a ieri, si ricorreva ad altri strumenti. L’impiego degli ETF da parte dei money managers è infatti sempre maggiore in quanto questi costituiscono un’alternativa rapida ed economica in un 'epoca in cui brokers e istituti bancari, che gestivano i meccanismi OTC, sono limitati da regole più stringenti e risorse più limitate. Una compravendita ETF ha un costo estremamente inferiore rispetto ad una composta da trade sui singoli bond in portafoglio e, in determinate condizioni di mercato, detenere replicanti facilmente tradabili in borsa offre più garanzie rispetto ai singoli bond. Altri soggetti detengono ETF al fine di ricevere un rendimento interessante in attesa di alternative più remunerative mentre altri ancora li impiegano per gestire le posizioni in essere al posto di prodotti derivati molto conosciuti come CDS, futures o options (esistono anche su ETF). Il mercato obbligazionario sta dunque crescendo nel suo complesso e con esso la sua liquidità ma questo è un processo mediato come mai prima d'ora anche dall’investimento in ETF, strumenti che , come sempre, si evolvono secondo le esigenze del mercato stesso massimizzando le caratteristiche da esso più ricercate ossia, nel caso del bond market, una maggiore la liquidità. Necessaria implicazione di questo meccanismo è quindi l’ abbandono da parte degli indici dei titoli meno liquidi (come infatti vedremo più avanti parlando del Bloomberg Barclays US aggregate), sempre più ad esclusivo appannaggio della gestione attiva seppur, a questo punto, ancora meno facili da negoziare ed attraenti. Se da una parte gli ETF si prestano oggi ad essere interessanti veicoli all'investimento in bond, oltre a fornire liquidità a questo mercato, vi sono però anche caratteristiche che gli ETF devono fare proprie per raggiungere la più competitiva gestione attiva. Rispetto a queste, gli ETF passivi possono solo minimizzare il divario con i fondi comuni lasciando invece a gestioni rule based più complesse ed ETF attivi il ruolo di concorrenti diretti. ll mercato obbligazionario, seppur meno liquido di quello azionario, si dimostra comunque molto più dinamico di questo per quanto riguarda la sua stessa composizione e questo esalta l'operato del gestore. In termini di nuove emissioni, infatti, mentre nell’equity il peso delle nuove quotazioni risulta trascurabile rispetto alla capitalizzazione complessiva del mercato, la natura dei bond, tipicamente con scadenza definita, porta questi strumenti ad un fisiologico e continuo rinnovamento dell’offerta che può interessare, come accade ad esempio per i corporate bond, anche oltre il 20% del mercato. Dunque, per quanto riguarda i bond, il mercato offrirà al gestore più occasioni da cogliere per entrare in posizione a condizioni favorevoli ( di norma a sconto ) vantaggio, questo, potenzialmente precluso ad un replicante tradizionale che per sua natura risulta strettamente vincolato sia all'inclusione dei nuovi titoli nell'indice sia alle tempistiche con le quali questa si verifica. Questo privilegio risulta poi massimizzato nel caso si tratti di gestioni attive in grado di assorbire una parte considerevole della nuova offerta (si parla di acquisti per miliardi di dollari). A tal proposito, PIMCO, notifica di aver contrattato con Verizon, in occasione della maxi emissione da quasi 50 miliardi portata sul mercato dalla colosso USA, uno sconto sullo spread tra i 50 e gli 80 punti base rispetto ai 20 offerti al mercato: l’asset manager, ha ottenuto questi vantaggi al pari degli altri principali buyer di questi bond, acquirenti questi che, in aggregato, hanno portato Verizon ad allocare subito quasi il 50% di un emissione tanto cospicua ed importante per il gruppo di telecomunicazioni statunitense. Non si tratta certo di un caso isolato. PIMCO stessa menziona di un’obbligazione bancaria senior entrata nel suo portafoglio ad un tasso LIBOR + 290 punti base solo poco tempo prima di arrivare sul mercato in asta ad un tasso LIBOR + 150 punti base In tal senso, la realizzazione di queste transazioni al di fuori dei circuiti di borsa, o comunque in anticipo rispetto al collocamento sul mercato, crea opportunità esclusive per i gestori. Un altro aspetto non certo trascurabile è rappresentato dal fatto che i gestori passivi sarebbero, in teoria [4], vincolati alla persistenza del titolo nel portafoglio dell’indice e pertanto obbligati a vendere quei titoli una volta esclusi, ad esempio per un peggioramento nelle condizioni di salute dell’emittente, come nel caso di un downgrading della valutazione di rating al di sotto della soglia consentita dalla policy dell’indice. In questo caso, oltre ad essere costretti a vendere proprio in un momento di forte riduzione del prezzo, i replicanti non potrebbero neppure godere dell’opportunità di riacquistare i titoli più in salute al termine del crollo (non ancora in grado di vantare una valutazione investment grade) perdendo quindi l’aggiustamento dei corsi e gli eventuali guadagni degli anni successivi (i benefici ricadrebbero probabilmente sugli ETF high yield che possono invece esporsi a tali livelli di rischio). Si tratta di svantaggi che il replicante passivo incontra anche quando dei bond sono suscettibili di un innalzamento del proprio merito di credito. E’ infatti risaputo che le valutazioni di titoli suscettibili di un innalzamento del rating ( e del conseguente ingresso negli indici più famosi e investiti ) aumentano di valore per mesi prima che questi cambiamenti si verifichino (outlook positivo da parte delle agenzie e degli index providers) ed è pertanto altamente probabile che questo aumento di valore penalizzi i replicanti investment grade al momento di dover prendere posizione sugli stessi (posizioni probabilmente già in essere e in guadagno su ETF high yield). I gestori attivi possono invece gestire le posizioni sugli stessi per trarne il massimo profitto grazie a policy molto meno stringenti di quelle imposte da un indice finalizzato alla semplice replica di un mercato. Minimizzare l'impatto di tali limiti evidenziati dai replicanti rispetto alle dinamiche dei singoli titoli è possibile aumentando le frequenze di ribilanciamento degli indici insieme con un affinamento delle strategie di selezione alla base dei benchmark rule based. Uno studio sui fondamentali può prevedere cambiamenti nel merito di credito aggiornando di conseguenza i pesi relativi nell'indice strategico proprietario massimizzando l'esposizione a titoli meritevoli di un rating più elevato e riducendo progressivamente quella su bond che mostrano segni di sofferenza al fine di limitare l'impatto negativo. Lo scopo di indici più dinamici è quello di consentire all’investimento nel singolo ETF di perdurare nel tempo rendendo meno impellente il passaggio tra prodotti diversi nelle varie condizioni di mercato. Ma la policy dell’indice è suscettibile essa stessa di subire dei cambiamenti nel tempo, portando ad esclusioni non strettamente correlate con stato di salute attuale del singolo titolo. In tal senso, nel corso dei primi mesi del 2017 abbiamo assistito ad un cambiamento nella policy del famoso Bloomberg Barclays U.S. Aggregate Index, al quale abbiamo fatto riferimento anche in precedenza e che comprende nella sua composizione titoli del Tesoro americano, di altre istituzioni governative ma anche una componente corporate (aggregate, appunto): il provider, a seguito degli Index Advisory Council meetings di novembre 2016, ha deciso, tra le varie cose, una variazione nelle size minime con le quali i bond ammessi alla sua composizione devono risultare disponibili sul mercato con il passaggio dai precedenti 250 milioni di dollari agli attuali 300 milioni. Questo cambiamento ha avuto un impatto notevole portando all’esclusione , in aprile, di oltre 1023 obbligazioni che non rispettavano i nuovi parametri, queste per un valore complessivo che superava i 304 miliardi di dollari, il 2% del valore dell’indice. Si trattava di bond per i quali non si era osservata alcuna particolare lacuna in termini di rendimento, merito creditizio, ma che si presentavano semplicemente come meno liquidi: l’uscita dall’indice di questi titoli, vale la pena ricordarlo, ha implicato la loro vendita da parte di molti dei prodotti che seguono passivamente l’indice replicandone fisicamente la performance. Oltre a liberarsi di titoli fondamentalmente sani, vendite ingenti a livello globali saranno anche in grado di danneggiare le quotazioni degli stessi portando a vendere in una fase di ribasso dei corsi e ampliando, come visto per un downgrading nel rating, i margini di manovra della gestione attiva. Se però ci si chiede per quale ragione il provider abbia preso questa decisione, ecco che torna prepotentemente in evidenza l’impatto che gli ETF hanno avuto sul mercato obbligazionario. Infatti, secondo l'index provider, tale provvedimento ha principalmente la finalità di eliminare dal portafoglio indice i titoli meno liquidi semplificando l’impiego dell’indice soprattutto da parte dei replicanti che segnalavano non poche difficoltà in tal senso.Ricordiamo che titoli illiquidi si trasformano in un costo per l'ETF e vanno potenzialmente ad allargare il tracking error dello strumento e che gli ETF sono oggi accusati di sostenere, essendo basati su indici che hanno di fatto solo l'esigenza di essere rappresentativi di un settore o un mercato, quotazione e liquidità anche di titoli che non meriterebbero, in base a valutazioni obiettive, tanta considerazione. Delle centinaia di miliardi di dollari investiti in prodotti benchmarcked sul famoso indice, oltre 80 miliardi sono investiti in ETF ma l’intervento del provider lascia pochi dubbi in merito alle previsioni circa il potenziale allargamento degli asset investiti in questi strumenti. Se dunque il successo di bond ETF plein vanilla è spiegabile attraverso la rivoluzione in atto sul mercato di bond che li vede ormai come tasselli fondamentali dei suoi meccanismi di funzionamento, la supremazia della gestione attiva in campo fixed income può dirsi ridotta dall'avanzata di soluzioni smart beta ma realmente minacciata solo in funzione della diffusione di ETF attivi, oggi poco diffusi ma in aumento. Secondo Morningstar ,negli Stati Uniti, mercato di riferimento per l’innovazione finanziaria che caratterizza questi strumenti, sono stati oltre 200 gli ETF attivamente gestiti lanciati dall’inizio della crisi ad oggi con un incremento nel lancio di questi nuovi prodotti fino a coprire oggi il 15% del mercato ETF USA. Tra le ragioni che da sempre limitano la diffusione di questi prodotti ci sono tuttavia problematiche di trasparenza che derivano dagli obblighi di pubblicazione delle holdings su base daily che oggi un ETF deve rispettare, poco conciliabili con la gestione attiva specialmente per prodotti di grandi dimensioni per i quali diffondere informazioni su strategie e posizioni potrebbe rappresentare perfino un costo. Tuttavia è bene ricordare che un portafoglio di bond mediamente risulta molto meno movimentato rispetto a uno azionario e pertanto la problematica in questione potrebbe avere un impatto più limitato di quanto si possa credere.

[1] Una volta considerate altre forme di costo quali spread bid ask piuttosto che tracking error del replicante esaminato l’ effettiva maggiorazione di costo sostenuti da chi acquista fondi obbligazionari tradizionali monetari rispetto a chi punta sugli ETF si riduce ulteriormente

[1] Acquistare titoli meno liquidi ha però uno svantaggio: nel caso di disinvestimento da parte dei clienti, la possibilità di liquidare questi titoli secondo tempistiche e prezzi vantaggiosi potrebbe rivelarsi limitata e potrebbe andare ad impattare con i suoi effetti sulle quote rimaste

[3]Il mercato obbligazionario si dimostra di gran lunga più esteso di quello azionario, principalmente per il fatto che oltre alla deregolamentazione OTC, un’azienda presenta sul mercato le proprie azioni ma decine di bond di differenti tipologie e diverse scadenze, cedole, seniority e altre peculiarità di sorta.

[4]In realtà, i limiti che gli asset managers si trovano ad affrontare sono spesso meno vincolanti di quanto appaia in superficie. Permane infatti un discreto livello di discrezionalità in quanto, da quanto è esplicitato nel prospetto, questi si riservano la possibilità di acquistare anche asset non appartenenti al paniere benchmark, se nell'interesse del comparto. Metodologie di replica fisica particolari come quella ottimizzata consentono ad esempio di "scremare" il portafoglio sottostante da securities che non permetterebbero una replica efficiente, come quelle illiquide.


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