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L’ America di Trump fra l’onda populista e la fine dell’utopia digitale all’ombra del dragone cinese


Teatro Sociale gremito questo pomeriggio per assistere all’incontro, introdotto dalla giornalista americana Jennifer Clark, con Federico Rampini, editorialista e corrispondente de “la Repubblica” dagli States. Un giornalista capace, come pochi, di raccontare agli italiani gli Stati Uniti di oggi che stanno vivendo da una parte le conseguenze e i mutamenti causati dall’elezione a presidente di Donald Trump e dall’altra quello che si può definire come il tradimento dei Padroni della Rete nei riguardi della cosiddetta utopia digitale.

Profondo conoscitore degli Stati Uniti Federico Rampini ha voluto raccontare quel viaggio che dura da anni dall'America profonda, quella che ha votato Trump nella zona industriale del Midwest chiamata Rust Belt (che si traduce con “Cintura della ruggine”) fino alla West Coast californiana, tra i padroni della Rete che hanno tradito l'utopia digitale. Un’esplorazione che parte da lontano la sua, dal primo viaggio negli States del ’79 in California: “Una destinazione che per noi ragazzi della sinistra europea era un vero mito, un luogo magico, una sorta di laboratorio per tutto quello che avremmo voluto portare nel Vecchio Continente. Una società multietnica, libertaria, con tanta ricerca universitaria. Non era ancora la Silicon Valley di oggi ma c’era già l’idea di unire tecnologie avanzate ad un pensiero progressista”. Ma proprio nel 1979, ricorda Rampini, Ronald Reagan stava incominciando la sua scalata alla Casa Bianca partendo proprio dalla California di cui era governatore. Dalla stessa terra dunque divergono due storie: una molto radicale ed estremamente progressista nel segno delle tecno utopie e l’altra di reazione e reflusso conservatore”. In quel periodo economisti e sociologi stavano incominciando ad analizzare lo spostamento del baricentro economico americano dai vecchi Stati del Midwest, appunto il Rust Belt, verso le zone della cosiddetta Sun Valley verso il Pacifico. Una ricollocazione geografica del capitalismo americano che si sposta verso zone poco sindacalizzate dove non ci sono più i bastioni delle Unions.

Rampini torna in California nel 1999 a San Francisco in un quadro completamente diverso nel boom della New Economy, con il Nasdaq ai massimi, prima dello scoppio della bolla speculativa del 2000. “Si viveva un clima di grande euforia con ventenni che avevano fatto i miliardi con le loro start up. Accanto a loro resisteva però ancora la corrente libertaria e anticapitalista che aveva creato l’utopia di Internet. Erano dei contestatori e dei ribelli, geni dell’informatica e della matematica, che volevano far rimanere il web una prateria libera con una conoscenza senza barriere. Un’ala che è stata sconfitta o che in parte ha sposato quel capitalismo che avversava come nel caso di Steve Jobs, un giovane sognatore innamorato di Bob Dylan e Joan Baez, diventato un pirata del capitalismo. Una traiettoria quella di Jobs comune a molti”.

Fra i tanti spunti offerti da Rampini quello legato alla classe operaia di metalmeccanici del Midwest che si sono sentiti traditi dalla sinistra in diverse occasioni Operai che prima hanno eletto Reagan nel 1980 e poi Trump che ha riscoperto quel linguaggio capace di parlare ad un mondo abbandonato da chi avrebbe dovuto difenderne i diritti. Ronald Regan li aveva difesi dai giapponesi con un’operazione di protezionismo e analoga operazione sta facendo ora Donald Trump. “Gli operai americani– ha sottolineato il giornalista di Repubblica – non sono razzisti ma hanno capito da molto tempo che l’immigrazione serve a fregarli. Bisogna avere chiaro negli Stati Uniti come in Europa che il capitalismo usa l’immigrazione per diminuire i salari, spezzare le reni al movimento operaio e ridurne il potere contrattuale. Una lezione che la sinistra buonista sembra aver dimenticato ma che gli operai vivono ogni giorno sulla loro pelle”.

Infine Federico Rampini ha parlato anche dell’ascesa della Cina: “Nessuno aveva previsto arrivasse alla crescita di oggi probabilmente neppure i suoi governanti. Nessuno aveva compreso – ha sottolineato il giornalista – quanto la Cina sarebbe stata capace di replicare su scala gigante i miracoli del Giappone, della Corea del Sud o di Taiwan. Si Ha avuto così origine un vero e proprio terremoto economico come l’umanità non aveva mai vissuto, con mezzo miliardo di cinesi che in vent’anni sono passati dalla fame ad essere il ceto medio. Ed è proprio con il dragone cinese che bisognerà fare sempre più i conti in futuro”.


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