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Il declino della grande industria italiana

La storia economica e industriale italiana è stata caratterizzata da periodi di forte crescita ma anche e soprattutto di forte declino. Gli anni che andremo ad analizzare sono quelli immediatamente successivi agli anni 70, anni che hanno segnato la fine del cosiddetto “miracolo italiano”, un’epoca economica e industriale caratterizzata da una forte crescita e da uno spiccato sviluppo tecnologico. I fattori determinanti del boom economico possono essere sicuramente ricondotti sia alla liberalizzazione degli scambi, in un contesto di stabilità monetaria, che ha portato ad un maggior dialogo con l’America apprendendo tecnologie e capacità organizzative, sia all’esperienza e alle competenze sviluppate dal nostro Paese in un secolo di storia industriale e, non da ultimo, dalla gran volontà di lasciarsi alle spalle una condizione di miseria senza prospettive. A capofila dello sviluppo economico ed industriale ci sono sicuramente i grandi colossi industriali italiani come la Finsider, una grande impresa pubblica guidata con logiche imprenditoriali da Oscar Sinigaglia, o l’Eni, sorta sulle ceneri della vecchia Agenzia generale italiana petroli grazie alla intui- zione di Enrico Mattei, o ancora Piaggio e Innocenti e Fiat i cui motori sono stati il segno tangibile di un benessere finalmente accessibile. Tra i colossi non si può non nominare la Pirelli, leader nella produzione di cavi e dei pneumatici e l’Olivetti, leader nel settore dell’elettronica. Anche le piccole imprese hanno contribuito alla crescita economica del nostro Paese, una valutazione che trova concorde Guido Carli, governatore della Banca d’Italia dal 1960 al 1975, convinto che “l’evoluzione essenziale della struttura industriale si fosse verificata nelle fasce mediane dell’imprenditoria. È questo il vero fatto rivoluzionario” di quella stagione rimasta nella memoria di tutti (1). Ma veniamo ora agli inizi degli anni ’70 che segneranno la fine di questo periodo così glorioso per l’economia italiana. Uno dei fattori determinanti il declino industriale è il contributo delle grandi imprese allo sviluppo italiano che, negli anni, si è progressivamente affievolito. Anche l’arrivo della globalizzazione crea una profonda crepa nell’economia italiana poiché affrontata dalla maggior parte delle grandi imprese italiane insistendo sulla riduzione dei costi e delocalizzando all‟estero quote importanti di attività produttive e di subfornitura (2). E’ chiaro come quindi vengano meno alcune delle condizioni che avevano favorito la crescita dell’economia italiana. Questo rallentamento di crescita si riflette poi sull’occupazione e sulle performance aziendali. Le grandi imprese pubbliche cominciano ad avere sempre meno margini di autofinanziamento richiedendo sempre un maggior aiuto da parte del Governo e ponendosi inevitabilmente sotto scacco dei poteri politici. La crisi dei grandi colossi industriali porterà però alla diffusione di microimprenditorialità, portando di fatto ad un dualismo della struttura industriale italiana. Se da un lato c’erano e ci sono le grandi imprese che si occupano su larga scala di beni standardizzati e poco differenziati come acciaio, auto, chimica, petrolchimica, cavi e pneumatici, elettronica, i distretti e imprese del Quarto capitalismo forniscono invece beni prevalentemente destinati alla persona e alla casa come tessili, abbigliamento, alimentari, materiali per l'edilizia, mobili e beni di meccanica leggera, principalmente macchine (3). Ma la crisi industriale italiana non può essere ricondotta solamente alla nascita di realtà più piccole ma va attribuita a errori gestionali, alla bassa propensione dei gruppi di controllo a rischiare mezzi propri, agli insufficienti livelli di innovazione derivanti da basse spese in ricerca e sviluppo e ancora all’esigua crescita del Pil, alla stagnazione della produzione industriale in quasi tutti i settori e alla diminuzione della quota italiana delle esportazioni nel mondo. Se negli anni ’80 fummo abbagliati da una luce che si intravedeva nella crepa economica italiana, gli anni ’90 confermarono invece il trend in calo dell’industria. In questi anni fu messa in discussione anche la sopravvivenza stessa di alcune tra le più importanti società italiane come la Montedison e la Olivetti che riuscirono a salvarsi risentendo “solo” di una diminuzione della loro presenza sul mercato con conseguente contenimento della loro dimensione (4). Sono questi anni di difficile gestione del declino da parte delle grandi imprese che cercano di sopravvivere nell’attesa di alleanze internazionali in grado di offrire loro uno sbocco alla situazione di stallo in cui erano precipitate. Ad esempio, fu nel 1984 che Olivetti strinse un’alleanza strategica con Ivrea per la commercializzazione del personal computer M24, che divenne uno tra i più venduti su scala mondiale. O ancora la Fiat che mieteva i propri successi maggiori sul mercato europeo, dopo il lancio della Uno, la sua vettura più fortunata e diffusa. Anche il made in Italy in ambito tessile registrava grande successo commercializzando anzitutto sul mercato americano. Questo durò pochi anni, quando ci fu una inversione di tendenza: le grandi imprese non risultavano più così aperte al mercato internazionale anzi ripiegavano dentro i confini nazionali. Superata con qualche ammaccatura la recessione degli anni ’90, secondo l’economista Pierluigi Ciocca “è mancata l’impennata negli investimenti. In particolare nei più innovativi che sarebbe stata necessaria ai fini della crescita, nonostante i mezzi finanziari fossero disponibili; il gravame del debito pubblico ha imposto una penuria delle risorse di bilancio necessarie per ammodernare le infrastrutture, divenute del tutto inadeguate, e per ridurre il costo del lavoro per le imprese; l’ordinamento giuridico dell’economia, cruciale per la crescita, si è dimostrato sempre meno acconcio, nelle norme e nella loro applicazione. E poi ha inciso la questione della frammentazione del sistema delle imprese e [del]l’incapacità delle piccole di accrescere la propria dimensione, fattori che rientrano tra i tratti storici del capitalismo italiano”. E ancora, secondo Ciocca all’impresa italiana conviene rimanere piccola per ragioni “giuridiche, burocratiche, fiscali, capaci di rappresentare un freno notevole in una fase in cui le tecnologie dell’informazione restituiscono alle grandi imprese margini di flessibilità più ampi. Dunque, la condizione di ‘piccole donne che non crescono’ delle aziende italiane, lungi dall’essere imposta dal modello di specializzazione, congela quel modello, restringe l’investimento all’estero, limita le esportazioni. Il tramonto dell’impresa pubblica ha fatto venir meno un’alternativa, un potenziale concorrente, rispetto all’impresa privata” (4).

Lo sviluppo italiano a partire dall'ultimo dopoguerra è stato caratterizzato dalla crisi delle grandi imprese private derivata da errori gestionali, dalla preferenza accordata alle operazioni finanziarie e dagli insufficienti livelli di innovazione derivanti da basse spese in Ricerca e Sviluppo. Un pattern che è vero ancora oggi: l'economia italiana non favorisce la nascita delle imprese aventi scala multinazionale, idonee a sostenere le innovazioni tecnologiche e a trasferirle a tutti gli altri operatori industriali. (5) Confrontando la classifica dei primi 10 gruppi industriali italiani per giro d'affari con quelli di 30 anni fa notiamo che Eni e Fiat tra alti e bassi si confermano in vetta, mentre dalla terza piazza in poi i cambiamenti sono enormi. Rispetto al 1984 la storia ha inghiottito sei dei gruppi che dominavano la top ten: falliti smembrati commissariati. Sono scomparse Montedison e Olivetti, così come non esistono più Sme e Snia Bpd, o sono diventate tutt'altro italtel e l'industria siderurgica nazionale all'epoca raccolta sotto la holding Pubblica Finsider. Una fine che di fatto ha cancellato quasi 280 mila posti di lavoro diretti. Dai dati Mediobanca prodotti nell'indagine annuale R&S sulle imprese più grandi del mondo emerge innanzitutto una consistenza relativamente bassa di grandi imprese multinazionali. Nel 2014 l'Italia ospitava la sede di 24 gruppi, ma di questi quelli con fatturato superiore a 10 miliardi di euro erano solo tre. In confronto, la Francia contava anch'essa 24 gruppi, ma di questi erano 17 quelli che superavano la soglia dei dieci miliardi, la Germania ne aveva 23 e il Regno Unito 20; entrambi i Paesi con 19 multinazionali oltre 10 miliardi di giro d'affari. In secondo luogo, in Italia c'è un'attenzione insufficiente all'innovazione e alla crescita interna. Nel 2014 il tasso di investimento delle multinazionali italiane è stato pari al 6,9% contro il 12,8% delle tedesche, il 9% delle britanniche e il 7,6% delle francesi. Le spese di Ricerca e Sviluppo in Italia erano intorno al 2% del fatturato contro il 4,8% delle tedesche, il 3,9% delle francesi e delle Nord americane. Anche la crescita è molto bassa. La variazione degli attivi tra il 1992 e il 2014 è stata pari al 142% contro il 279% delle tedesche e il 330% delle britanniche. Solo le francesi sono cresciute meno di noi in quel periodo (+ 120%) e questo spiega probabilmente le acquisizioni che hanno fatto negli anni seguenti. Infine nelle imprese italiane viene privilegiata la crescita interna rispetto alle fusioni e acquisizioni, che portano allo sviluppo dei grandi gruppi multinazionali. (6)

L'Ilva di Taranto

Nel libro Storia dell'Iri, Ruggero Ranieri ricostruisce la storia della società: dai debiti enormi e la liquidazione della holding, alla fine di Bagnoli e allo smembramento di metà anni 90 con la cessione di acciai Speciali Terni a Thyssen, di Dalmine alla Tenaris della famiglia Rocca e dell'ilva ai Riva, che l'hanno trascinata sull'orlo del baratro. Meno conosciuta è una delle tante colpe che la politica si porta dietro alla fine degli anni Ottanta. L'Iri aveva deciso di affrontare i problemi cronici della Finsider facendola ripartire da nuove basi e alleggerendola dei debiti. Il rilancio però fallí per la cattiva gestione delle scelte operative e per le intromissioni politiche. L'Ilva di Taranto é l'acciaieria più grande d'Europa e conta ben oltre 16.000 addetti. Una rarità, come mostra la taglia ancora ridotta delle molte multinazionali tascabili presenti in Italia. (7)


1. L’industria italiana tra crisi e ripartenze, Giorgio Bigatti

2. L’industria italiana tra declino e trasformazione: un quadro di riferimento, Fulvio Coltorti

3. Il declino della grande impresa privata e la resistenza dell'impresa pubblica in Italia negli ultimi 20 anni

4. L'industria e le crisi degli ultimi decenni

5. Rassegna sindacale il Bel Paese sul viale del tramonto

6. il declino della grande impresa privata e la resistenza dell'impresa pubblica in Italia negli ultimi 20 anni

7. Espresso, Così L'Italia si è giocata le grandi fabbriche e ora paghiamo gli errori di politici e privati

Dalla rete

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President Lagarde presents the latest monetary policy decisions – 11 April 2024
13:11
Da L’Avventura della Moneta a MUDEM: oltre 16.000 grazie!
02:00
Banca d'Italia - Eurosistema

Da L’Avventura della Moneta a MUDEM: oltre 16.000 grazie!

C’è ancora tempo, fino al 28 aprile, per visitare L’Avventura della Moneta, la mostra immersiva anteprima di MUDEM, il futuro Museo della Moneta- Banca d’Italia in corso al Palazzo delle Esposizioni di Roma. La mostra, ideata da Paco Lanciano e Giovanni Carrada per la Banca d’Italia, ha ricevuto oltre 16.000 prenotazioni, è stata visitata da più di 7.000 studenti ed è stata accompagnata da ben 20 eventi. MUDEM ha organizzato visite dedicate alle scuole primarie e secondarie e realizzato 68 attività educative, grazie alla collaborazione con la Fondazione Scuola dei beni e delle attività culturali, il CNR, l'Opera Nazionale Montessori e il Dipartimento Circolazione monetaria e pagamenti al dettaglio della Banca d’Italia. Nel ciclo di incontri Dopo l'avventura, esperti e accademici hanno approfondito i temi della mostra con le loro ricerche e spunti originali. Il Museo della Moneta ha intrapreso un lavoro di co-progettazione e sperimentazione per l'accessibilità della mostra e del museo. È stato realizzato un percorso tattile e multisensoriale che ha reso accessibili alle persone cieche e ipovedenti le prime tre sale della mostra. Per le persone sorde sono stati progettati dei supporti nella Lingua dei segni italiana: tablet con video in LIS e smartglasses con sottotitoli per visitare l’intero percorso. Questo video è un ringraziamento a chi finora ha seguito MUDEM e a chi si sintonizzerà sulle sue frequenze nei prossimi mesi. …Il viaggio è solo all’inizio!
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