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Pressione fiscale, nel 2020 è salita al 43,1%

Nel 2020, la pressione fiscale è salita al 43,1 per cento, la stessa soglia toccata nel 2014, a soli 0,3 punti percentuali dal record storico che si è registrato nel 2013. La pressione fiscale, ricorda l’Ufficio studi della CGIA, è data dal rapporto tra le entrate fiscali e quelle contributive sul Pil. Ovviamente, l’incremento di 0,7 punti percentuali rispetto al 2019 è ascrivibile in massima parte al crollo del Pil che l’anno scorso è sceso dell’8,9 per cento. Sebbene sia stata più contenuta di quella registrata da quest’ultimo, anche le entrate fiscali e contributive hanno comunque subito una forte contrazione del gettito (-6,3 per centro). In termini assoluti il fisco, l’Inps e le casse previdenziali hanno riscosso 711 miliardi di euro, 48,3 miliardi in meno di quanto registrato nel 2019. Nonostante queste precisazioni, fa sapere l’Ufficio studi della CGIA, è evidente che il carico fiscale complessivo che grava sulle famiglie e sulle imprese costituisce un grosso problema. Secondo il DEF approvato, la previsione tendenziale stima la pressione fiscale del 2021 al 42,1 per cento. Un dato, parziale, che non tiene conto dello scostamento di bilancio da 40 miliardi di euro che verrà approvato dal Parlamento e degli effetti riconducibili ad eventuali nuove misure correttive che saranno prese entro la fine di quest’anno. La crisi ha colpito soprattutto l’economia del Sud. Secondo l’indagine Istat realizzata verso la fine dell’anno scorso, dall’incrocio dei dati relativi al numero di imprese che hanno denunciato di essere a rischio operativo Alto e Medio Alto con il corrispondente numero di addetti interessati, è possibile mappare il rischio operativo del nostro sistema economico. Dal risultato di questa operazione è emerso che il Mezzogiorno è la ripartizione geografica più colpita dalla pandemia: cinque regioni sono ad Alto rischio combinato (Abruzzo, Campania, Basilicata, Calabria e Sardegna), altre 2, invece, sono a Medio Alto rischio (Puglia e Sicilia). Nel Sud solo il Molise si trova in una situazione di rischio combinato Medio-Basso. Al Centro, invece, preoccupa la situazione dell’Umbria (Alto-Rischio), del Lazio e della Toscana (Medio-Alto Rischio). Al Nord, infine, preoccupa la situazione emersa in Valle d’Aosta e nella provincia autonoma di Bolzano che ricadono nell’area a Medio-Alto rischio combinato. Rispetto a tutte le principali regioni settentrionali, il Veneto presenta un livello di vulnerabilità superiore; tale situazione è riconducibile alla sua forte vocazione turistica e alla crisi registrata, in particolar modo, del settore delle pelli e del tessile/abbigliamento. Più in generale, segnala l’Istat, la fragilità di un territorio è ascrivibile sia al grado di diffusione dei settori maggiormente colpiti dalla crisi sia dal livello di specializzazione dell’economia locale in tali attività. In particolare, soffrono più degli altri il tessile, l’abbigliamento e la lavorazione della pelle, settori duramente provati in questo ultimo anno dalla forte contrazione registrata dalla domanda interna e da quella internazionale. Altrettanto drammatica è la situazione dei comparti che ruotano attorno al turismo (alberghi, tour operator, agenzie di viaggio, trasporto pubblico locale, etc.), il commercio al dettaglio, gli ambulanti, bar e ristorazione, le attività culturali (musei, cinema e teatri), quelle sportive (piscine, palestre) e quelle legate al tempo libero (parchi divertimenti, spettacoli viaggianti, discoteche, etc.) che più degli altri hanno subito gli effetti negativi dei provvedimenti di chiusura e di distanziamento fisico imposti dal Governo.




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