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SONO SEMPRE IO “LA GUCCI” – La storia di Patrizia Reggiani Gucci

Per una persona che piange sul bordo di un marciapiede, ce n’è sempre una che lo fa sul sedile di una Ferrari Testarossa, la stessa che Maurizio Gucci si comprò il giorno in cui disse alla moglie che non le serviva più: era il 1985, pochi anni dopo la morte di Rodolfo Gucci. L’Avvocatino, come lo aveva soprannominato affettuosamente lo zio Aldo Gucci, artefice del successo della Maison oltreoceano, si era sentito libero e in grado di rivivere quella giovinezza che gli era sempre stata preclusa, vittima di una figura paterna oppressiva che aveva scaricato su di lui la frustrazione per una vedovanza precoce e una carriera nel cinema finita troppo presto.

Sono tre i colpi di pistola che uccidono Maurizio Gucci il 27 marzo del 1995 nell’atrio del suo palazzo in via Palestro 20 a Milano. Sono ventinove gli anni di carcere cui Patrizia Reggiani in Gucci viene condannata come mandante dell’assassinio del marito; ne sconterà diciassette in quello che lei chiama Victor’s Residence: il Carcere di San Vittore. Quando l’ex ispettore capo della Criminalpol di Milano, Filippo Ninni, si recò, il 31 gennaio 1997, al 38 di Corso Venezia per trarre in arresto “La Gucci”, si trovò di fronte una donna impellicciata e ingioiellata come se stesse per andare a un party piuttosto che in carcere. La vide come una donna vuota, una lady che definiva sé stessa in relazione a ciò che la circondava e che era convinta sarebbe tornata a casa di lì a poche ore. Con la sua femminilità intatta è rimasta “La Gucci”, tra sbarre che hanno solo conservato la sua miseria. A metà settembre del 2013 il magistrato di sorveglianza ha disposto la sua scarcerazione in attesa di affidarla ai servizi sociali. Negli ultimi tre anni di pena, “La Gucci” ha lavorato, un impegno prima mai vissuto che si è consumato tra il luccichio di bijoux e accessori d’alta moda da Bozart, un’azienda del settore. In un’intervista a “la Repubblica”, la Reggiani dichiara però di voler tornare in Gucci, di sentirsi ancora una Gucci, la più Gucci di tutti.

Nelle motivazioni della sentenza, depositata al Tribunale di Milano dal giudice Renato Samek Lodovici, Patrizia Reggiani viene chiaramente identificata come una donna ferita che si avvalse dell’aiuto di un gruppo di disperati disposti a soddisfare il suo risentimento in cambio di una transazione: per la precisione 600 milioni di lire, circa 375.000$. D’altronde lei aveva i soldi, ma non aveva una buona mira. L’ex chairman di Gucci non sarà stato il padre più presente o il marito più affettuoso, ma negli occhi dell’ex moglie lui aveva commesso qualcosa che solo alla lontana poteva riguardare l’amore, e che forse più da vicino aveva a che fare con il denaro. Nonostante l’oneroso divorzio e il sostanzioso mantenimento, “La Gucci” era stata spogliata di un patrimonio formidabile e soprattutto di un cognome che era garanzia di opportunità e porte aperte. A più riprese, gli avvocati della Reggiani hanno tentato di avanzare l’ipotesi della manipolazione di una ricca e invidiata signora che era assoggettata a frequenti e improvvise perdite di memoria. Nel 2013, in un’intervista con Franca Leosini per il programma Storie maledette, Patrizia Reggiani confermò di aver temuto ritorsioni sulle figlie da parte degli aguzzini, nel momento in cui si trovò a saldare “il lavoro”. Versione avvallata dalla primogenita Alessandra che, descrivendo il comportamento della madre nei mesi successivi l’omicidio, ne restituì un ritratto al limite del paranoico. Ma il vero problema, emerso dopo il consulto avviato dal giudice con un panel di esperti psichiatri, e che giustifica i ventinove anni di detenzione, è stato l’impatto generato dal narcisismo di Patrizia Reggiani, tanto forte da sfociare in un vero e proprio disturbo della personalità. Questa latente instabilità non si era mai manifestata quando la vita era stata generosa con Patrizia, ma nel momento in cui comprese di aver perso il controllo su Maurizio, “un uomo che portava l’impronta dell’ultimo che ci si era seduto sopra”, agì guidata dal risentimento nei confronti di chi non aveva saputo soddisfare le sue ambizioni, spesso ricorrendo alle figlie, eredi uniche del patrimonio paterno, ma ancora minorenni alla sua morte e quindi alla ricerca di un amministratore dei propri beni.

“Bene, se non hai il coraggio di farlo, lo farò io!”. Questo era stato il mantra recitato nei tredici anni di felice convivenza della coppia. Se Maurizio non fosse stato in grado di fare qualcosa, ci sarebbe sempre stato qualcuno in grado di frapporsi tra lui e la realtà. Questa persona era la moglie. Per comprendere come questo agisse sulle dinamiche del matrimonio, facciamo un passo indietro. Torniamo al 28 ottobre 1972, giorno in cui Patrizia e Maurizio convolarono a nozze nella magnifica cornice della basilica di Santa Maria della Pace a Milano. La chiesa era gremita di fotografi pronti a immortalare il matrimonio dell’anno, ma la pesante assenza di Rodolfo Gucci si faceva sentire. La precoce scelta di sposare “un’arrampicatrice sociale”, dopo nemmeno un anno di fidanzamento, aveva logorato i rapporti tra padre figlio al punto che non solo non si parlarono per due anni, ma addirittura il giorno delle nozze Mr. Gucci fece le valige e se ne andò prima a Firenze e poi a New York. Troppo festosa era l’aria che si respirava a Milano.

Con il tempo, e la nascita della nipote Alessandra nel 1976, il rapporto tra padre e figlio si ristabilizza. A fare da collante Aldo Gucci che aveva ben capito come in Italia ci fossero due galli in un pollaio e che decise quindi di portare Maurizio in America per istruirlo come suo successore, avendo compreso la scarsa caratura dei figli Paolo, Giorgio e Roberto. Qui il ruolo dispotico di Patrizia inizia ad emergere: Rodolfo, che aveva cresciuto il figlio abituandolo al bello, ma soprattutto alla fatica che serve per guadagnarselo, aveva prenotato per la coppia un hotel di terza categoria a Manhattan in attesa che trovasse un appartamento. La Gucci manifestò il suo dissenso e non ci mise molto a prenotare una suite al Saint Regis Hotel la mattina seguente. Da lì si spostarono poi in un appartamento di Aldo fino a quando Patrizia non mise gli occhi su un attico di 1.600 metri quadri su due piani all’interno dell’Olympic Tower. A questo seguirono negli anni un altro appartamento all’interno dello stesso grattacielo costruito da Aristotele Onassis, terreni ad Acapulco e in Connecticut e un attico a Milano. In occasione della nascita della primogenita, Maurizio fece l’investimento più ambizioso comprando un’imbarcazione di 64 metri a tre alberi chiamato Creole, un tempo di proprietà del tycoon greco Stavros Niarchos, e la cui ristrutturazione costò 1 milione di dollari. “Ogni regalo era un modo che Rodolfo aveva per ringraziarmi di tutta la felicità che stavo portando al figlio”, tuttavia nulla era formalmente di Patrizia; tutto ciò che componeva il patrimonio della famiglia era intestato a una compagnia off-shore con sede in Lichtenstein. Questo secondo un vecchio costume che risaliva alle origini della storia del brand: così come Guccio Gucci aveva giurato che nessuno privo del cognome di famiglia si sarebbe mai seduto ai posti di comando - addirittura arrivò a privare la figlia Grimalda di un effettivo ruolo in azienda, nonostante fosse stato il marito di lei a salvare Gucci dalla bancarotta nel 1924 - così, per evitare la dispersione della ricchezza di famiglia, ognuno dei tre figli del fondatore e i successivi eredi avrebbero dovuto siglare un accordo pre matrimoniale che vincolasse le proprietà alla discendenza Gucci. Questo doveva essere parso come un semplice cavillo agli occhi di Patrizia che, secondo le parole di Piero Giuseppe Parodi, uno degli avvocati di Maurizio, aveva sviluppato una vera e propria ossessione nei confronti delle proprietà dell’ex marito quando lui le presentò le carte del divorzio nel 1991. Lei era convinta che il successo della casa di moda fosse dovuto, in larga parte, ai suoi consigli, e che potesse rivendicare diritti sulle proprietà: dagli appartamenti a New York a quelli a Lugano, dal Creole allo chalet di Saint Moritz, che arrivò a maledire con l’aiuto di una maga affinché Paola Franchi, nuova compagna di Maurizio, non vi mettesse mai piede.

Ecco quindi che i nodi vengono al pettine. Patrizia era stata privata della possibilità di avanzare pretese sulle proprietà che non le spettavano per divorzio. Era poi consapevole di aver perso il controllo su Maurizio, che ormai si era adagiato tra le braccia di una nuova compagna che voleva dargli altri eredi. Conscia dell’instabilità finanziaria dell’ex marito, impelagato in una trattativa per la vendita del suo 50% in Gucci ad Investcorp al fine di ripianare i debiti del suo stile di vita faraonico, e vedendosi infine ridurre progressivamente i suoi assegni di mantenimento, perse la testa e arrivò a considerare Maurizio come la fonte di tutto il suo dolore. La goccia che fece traboccare il vaso arrivò il 26 marzo 1992 quando La Gucci venne ricoverata alla Madonnina per intraprendere la delicata operazione di rimozione di un tumore al cervello. Maurizio non si presentò, Patrizia non seppe mai che gli era stato sconsigliato di presentarsi per non turbarne la convalescenza. Tornata a casa il 2 giugno, la donna scrisse sul suo diario di Cartier la parola “vendetta”. La sua ripresa fu rapida, scongiurando quei pochi mesi di vita che le erano stati dati. Respirava per umiliare Maurizio, rideva immaginandoselo tornare a casa in ginocchio supplicandola, e poi ci furono quelle cassette recapitate al suo ufficio in cui lei lo accusava di essere un’appendice dolorosa da rimuovere perchè… “Maurizio, per te l’inferno deve ancora arrivare”.

L’immagine che si ha della Gucci nella fase processuale è molto diversa da quella costruita in tutta la sua vita. Pochi mesi dopo la morte di Maurizio, Patrizia si trasferì trionfalmente al 38 di Corso Venezia, godendo di tutti i benefici dell’eredità multimiliardaria del defunto marito in virtù del controllo che deteneva sulle eredi. Tra i banchi del tribunale si muove invece inosservata quello che era stato il “piccolo elfo rosso”, come l’aveva soprannominata Maurizio per via del vestito che indossava la prima sera che la conobbe a Villa Giardini. Di quella donna non è rimasto nulla se non l’ambizione: ai capelli cotonati si è sostituita una parrucca che copre le cicatrici dell’intervento, l’ombretto nero che incorniciava gli occhi viola ha lasciato spazio a un volto spento e basso. Dello spettro lussureggiante rimane solo il tailleur Saint Laurent che indossa il giorno della sentenza il 3 novembre 1998.

Non dimentichiamoci però che la verità, nella migliore delle ipotesi, è sempre un racconto a metà: sta a noi scegliere a che metà credere. La storia di Patrizia Martinelli Reggiani non è semplicemente la favola di una donna avida di potere, ma di una persona che ha comunque vissuto un dramma personale all’interno delle solide sbarre di una gabbia dorata: incapace di scegliere di chi fidarsi e giudicata dallo stesso mondo in cui il marito l’aveva portata con il matrimonio, La Gucci è stata semmai vittima di una scala valoriale sfalsata. Dalla sua penthouse a Manhattan era abituata a vedere il mondo rimpicciolirsi sotto di lei, ma quando microscopico è diventato l’affetto provato da Maurizio, il complesso dell’abbandono è stato insostenibile. L’omicidio è stato quindi l’atto finale per riprende il suo posto nella famiglia, è stata come la scalinata finale di Gloria Swanson in Sunset Boulevard.

Maurizio è morto per ciò che rappresentava, Patrizia è stata condannata per ciò che era.


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