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Il corpo in cui sono nata

Anni Settanta. La piccola Guadalupe nasce con un problema alla vista che la rende diversa. Sin da subito capisce che è costretta a lottare per ottenere ciò che ai suoi coetanei è già dato per una combinazione genetica più fortunata. La sua infanzia è un continuo processo di correzione: deve essere “allenata a vedere”, così come altri invece si preparano per partecipare a un campionato sportivo. L’occhio bendato; gli esercizi; la fatica costante di mettere a fuoco; le gocce che bruciano forte e quei brevi, estatici momenti in cui può finalmente togliersi il cerotto e liberarsi dalla sua prigione.

Nettel rivolge alla se stessa di allora uno sguardo di commovente tenerezza, ricordando le domande indiscrete degli altri bambini che fissavano con diffidenza il suo occhio bendato.

Attraverso la scrittura de Il corpo in cui sono nata (La Nuova Frontiera, 2022, trad. it. di Federica Niola) l’autrice messicana Guadalupe Nettel compie un percorso tortuoso, una forma di psicanalisi in parole, svolgendo una sorta di terapia in prosa.



Per tutto il corso della narrazione la scrittrice si rivolge a una psicologa, una certa dottoressa Sazlavski che in realtà non le risponde mai - è figura muta e invisibile, forse un espediente narrativo - spettatrice silenziosa di un monologo che si traduce presto nel racconto fiume di una vita e sembra rompere tutti gli argini.

Da brava narratrice Guadalupe Nettel sa che una stessa storia può essere raccontata da diverse prospettive; ma per raccontare la propria vita ne sceglie una unica - forse fallace, ma indubbiamente autentica - la sua.

Quindi articola il racconto della propria “unica storia” attraverso il primo strumento che viene dato a ciascuno di noi per entrare in contatto con il mondo: il corpo.

Ne Il corpo in cui sono nata Nettel cerca di dare risposte a queste domande attraverso un’evoluzione che ha il sapore di una trasformazione, quella di una bambina che progressivamente diventa donna.


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